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Il corpo celato. Riflessioni cliniche sui ragazzi ritirati

Erika Hopper

Erika Hopper

Scritto da Roberta Campo

Era il 2000 quando uscì “Thomas in Love”, un film che affronta la storia di un ragazzo di 32 anni terrorizzato dal mondo e dalla possibilità di entrare in contatto con le persone che vi abitano. Thomas, quindi, sceglie di ripiegare nel mondo protetto della sua casa, intrattenendo relazioni esclusivamente di carattere virtuale. Nel film non c’è mai la possibilità di scrutare o intravedere il volto di Thomas: per certi versi è come se il regista Pierre Paul Renders avesse colto un aspetto centrale della psicopatologia della postmodernità, caratterizzata dall’uso del corpo (manipolato, celato, aggredito) come mezzo per esprimere il proprio disagio. Nel caso di Thomas, così come per tanti ragazzi ritirati socialmente che soffrono nascondendosi nella propria stanza e rifugiandosi in un mondo popolato da un immaginario incomprensibile ai più, il corpo deve essere sottratto al contatto, al tatto, alla relazione. Il corpo è un traditore perché svela emozioni che vorrebbero rimanessero nascoste e diventa fonte di vergogna.

L’adolescenza di oggi è la risultante di diversi fattori familiari, politico-economici e culturali che la tratteggiano in maniera completamente diversa da quella che abbiamo visto descritta in film come “Breakfast club” o “L’attimo fuggente”.

Per comprendere meglio come è cambiata l’adolescenza ma anche e soprattutto il modo in cui oggi si esprime il disagio è necessario interrogarsi e comprendere il modo in cui i fattori culturali hanno delle ricadute sui processi di soggettivizzazione.

“Vittima” di questa cultura narcisistica è la famiglia che sempre più si interroga sulle caratteristiche che dovrebbe avere un buon genitore, impegnata nell’elaborazione di modalità comunicative e simboliche più consone alla realizzazione della figura del genitore amato e amabile sempre e comunque. Accoglienza e protezione sembrano essere le parole d’ordine della nuova famiglia: tutto è pensato per aiutare il figlio a divenire poliedrico e adattarsi a qualsiasi contesto, per sostenerlo a coltivare la propria indole e attitudine, per fargli esprimere al meglio le proprie potenzialità (rischiando di alimentare a volte il senso di onnipotenza e di affermazione di se oltre ogni limite). La relazione empatica garantisce il legame e permette di portare avanti il progetto educativo.
Le famiglie affettive, liquide, viscose, nella propria quotidianità, come ci descrive perfettamente Ammaniti (2015), mettono in scena delle pratiche apparentemente innocue, mascheratamente paritarie che spesso creano confusione e annullano le differenze generazionali, creando spesso sofferenza quando non un vero stallo educativo. Al contrario, nel loro percorso di crescita, gli adolescenti hanno bisogno delle differenze in quanto queste sostengono il percorso evolutivo e danno senso alla relazione e al legame.
Spesso il genitore veste i panni del giovane, invadendo il campo generazionale identificatorio dell’adolescente, si propone agli occhi del figlio come prestante, alla moda, eternamente complice, anche se in realtà, quando si racconta all’interno di una relazione terapeutica, egli ci parla di una propria difficoltà narcisistica ad accettare i propri limiti e mancanze; la competizione con il corpo giovane del figlio sembrerebbe volere scotomizzare la paura del proprio decadimento legato al passar degli anni.

Oggi, in realtà, siamo in presenza di una vera e propria emergenza pedagogica, i genitori si confrontano con domande semplicemente impensabili dai loro genitori e si chiedono costantemente quali possano essere le modalità educative più adeguate per sostenere il proprio figlio nella crescita. E le risposte a queste domande vanno trovate velocemente, perché una nuova emergenza è lì pronta a prendere il posto della precedente. Non ci si finisce di chiedere quante ore dovrebbe passare il proprio figlio davanti al pc che sorge la nuova domanda sull’età per accordarsi con i figli rispetto al possesso dello smartphone. Le domande che si fanno i genitori oggi sono tante e molteplici; sempre più spesso assistiamo a genitori preoccupati o in difficoltà nello stabilire i criteri per stabilire il limen tra normalità e patologia. Esce troppo o troppo poco? Il numero di amici è sufficiente? A cosa addebitare il suo silenzio relativo alla sfera affettiva e sentimentale?
Consapevoli che spesso il disagio è muto fino a quando non lo vedono esplodere fantasticano di spiare il figlio sul confine intimo e segreto della sua stanza.
È chiaro che, spesso, dietro tutte queste domande si cela il fantasma del ritiro sociale, isolamento, depressione.

Esposto alla pressione del mostrarsi buono e competente non è solo il genitore ma anche il giovane impegnato nella definizione della propria identità.
La società postmoderna, infatti, è caratterizzata dalla ricerca vorace e frenetica di oggetti, il cui possesso viene rappresentato dall’individuo come motivo di realizzazione personale e di completezza, unico modo per realizzare (illusoriamente) il proprio ideale dell’IO. Gli oggetti permetterebbero per certi versi di reggere le aspettative di fascino e bellezza, di essere iperprestanti ed efficienti. All’interno di un modo sempre in connessione, il nuovo mandato sociale è quello di essere sempre vigile, attento e pronto. Se da in lato però questa connessione costante è impossibile da reggere, dall’altro sembra altrettanto impossibile sottrarvisi, se da un lato permette di nascondere e camuffare a piacere il “vero Se”, dall’altro ci espone ad una continua assenza di privacy. L’uso dei social e di tutti i nuovi strumenti di comunicazione comporta una “socialità allargata” dove tutti potenzialmente possiamo essere in contatto con tutti. Per i “nativi digitali” ciò sicuramente comporta un nuovo modo di “sentirsi parte” , rappresenta un nuovo modo di condivisione e di tessitura di relazioni significative. Ma se per qualcuno l’uso di tali tecnologie è abbastanza integrato e connesso funzionalmente con il perseguimento dei compiti evolutivi, per altri adolescenti il computer e internet diventano u n modo per sottrarsi al mondo, scegliendo la vita al di la dello schermo.
Non dovrebbe per niente sorprendere, quindi, che il malessere oggi possa prendere la forma dell’isolamento e del ritiro, in quanto questa soluzione, per quanto estrema, permette al soggetto di evitare il confronto con la realizzazione di ideali sociali e familiari irraggiungibili e contemporaneamente consente al ragazzo un riparo in attesa che le acque si calmino e ove può riprendere il respiro ed elaborare con calma strategie evolutive più convincenti.

All’interno della nostra pratica clinica quotidiana non ci troviamo più ad ascoltare adolescenti che si sentono soverchiati dal senso di colpa e della paura della reazione dei propri genitori laddove scoperti per qualche trasgressione; al contrario ci troviamo davanti ad adolescenti che soffrono di una emorragia del proprio valore narcisistico. Gli adolescenti di oggi ci parlano, in contrapposizione agli ideali proposti dalla società, della loro paura di non farcela, di non essere all’altezza delle aspettative, di non essere adeguati, di non essere in grado di sostenere la competizione sociale.

“Se un tempo c’era il problema di dover reprimere i propri desideri per adattarsi a nuovi ruoli sociali ora i nostri giovano hanno a che fare con un ideale dell’io che impone di manifestare i propri desideri, non preparando questi ragazzi allo scontro con la realtà e i suoi limiti. Il sentimento che nasce da questo shock è la vergogna che è difficile da debellare, costringendo quindi il soggetto ad annullarsi completamente. Sono ragazzi che desiderano scomparire ossia sottrarsi allo sguardo inquisitore dell’altro, che diventa intollerabile” (Lupi, Zavarisi, 2014, pag.77)

I ragazzi che oggi sembrano essere insensibili a qualsiasi richiamo d’autorità sono gli stessi che sono pronti a “crollare” al minimo insuccesso personale. Una caratteristica che ci parla di una fragilità narcisistica, che vede l’adolescente votato ad una maggiore libertà ma contemporaneamente esposto alla perdita e alla frustrazione. Nel corso della crescita hanno interiorizzano un mandato genitoriale che li vuole protagonisti di un “Piano Grandioso”, destinato prima o poi alla prova di di realtà.
Nella cultura iperprestazionale, come ci ricorda Preciado (2015), il modello normativo è quello visivo: non sembra essere un caso, infatti, che in una società in cui l’ostentazione del corpo, la ricerca di visibilità, l’ideale performante e performativo la fanno da padrone, l’adolescente scelga il proprio corpo quale teatro per esprimere il dolore mentale relativo alla crescita.
Charmet lo descrive bene

“il corpo dell’adolescente è spesso luogo di espressione della sofferenza e strumento di comunicazione di conflitti mentali profondi” (Charmet 2004).

Gli adolescenti devono imparare a pensare il proprio corpo ma spesso quest’ultimo diventa un vero e proprio persecutore fonte di angoscia; il corpo infatti quando viene vissuto come un traditore prende le sembianze di un persecutore.
La crescita impone un cambio di specchio sociale: cambiano gli interlocutori dai quali ci si aspetta approvazione e riconoscimento e questi nuovi interlocutori non hanno sempre il volto protettivo e caloroso dei genitori. I vestiti, l’abbigliamento, le mode sono la cartina tornasole per capire a che punto sono gli adolescenti rispetto al proprio percorso di crescita; tramite l’accesso ad un codice comune e condiviso dalla stessa generazione, gli adolescenti fanno capire ai pari-età quanto si sono spinti oltre nel processo di mentalizzazione del corpo e della propria sessualità.
I ragazzi di oggi entrano nella fase puberale pieni di aspettative positive e a volte grandiose, con una rappresentazione più o meno nitida di quello che accadrà; ne ha parlato coi genitori, con gli insegnanti, ha ascoltato programmi in tv che esplicitamente parlano di una sfera che per anni è rimasta a gestione privata; in questo scenario nessuno si è spesso occupato realmente di sostenere l’esperienza emozionale relativa alla crescita. E così, quando al momento del debutto sociale le cose non vanno per come si era immaginato, gli adolescenti possono cadere nelle soluzioni chirurgiche o chimiche offerte dalla stessa società che ne origina la sofferenza (dipendenze, anoressia, ritiro sociale…).
Il ragazzo ritirato vuole sottrarsi allo sguardo reale dell’altro proprio come Thomas. Spesso sono convinti di non avere nulla da dare, soffrono per qualsiasi imperfezione possono rintracciare nell’immagine di sé e tale “bruttezza” viene isolata nel corpo facendo del corpo un vero e proprio persecutore. L’adolescente fa in effetti fatica a mentalizzare in questi casi le trasformazioni puberali che rendono il corpo goffo, impacciato e a volte anche un pò sgraziato.

Il corpo che con l’avvento della pubertà aveva promesso felicità, prestanza, potenza, forza, tradisce perché sede delle manifestazioni umorali che mettono a nudo la propria fragilità.
Il rapporto con l’altro è vissuto come doloroso, in quanto ci si espone al giudizio e alla paura di essere isolati e rifiutati. Il giovane che sperimenta il vissuto di inadeguatezza e di non essere all’altezza è spesso destinato ad essere preso in ostaggio della vergogna. Questa ha sicuramente un potenziale dirompente con conseguente sensazione di sfaldamento dei confini identitari. I ragazzi ritirati desiderano sottrarre il corpo, quel corpo che si vergogna e che tradisce alla vista dell’altro, non senza un vissuto di perdita. I ragazzi, infatti, desidererebbero avere relazioni di amicizia e sentimentali, ma ne rifuggono accuratamente in quanto l’altro potrebbe rifiutare e assumere la maschera di quel giudice dal quale tanto acrobaticamente rifugge.

In scacco vi è il compito evolutivo inerente la mentalizzazione del proprio corpo sessuato, complementare mortale, e virile (la maggior parte dei ragazzi ritirati sono di sesso maschile). Conseguentemente, nella scelta di isolarsi e di sottrarsi allo sguardo altrui si può rintracciare il tentativo di fermare il tempo e posticipare a data da destinarsi il proprio debutto sociale, nell’attesa di fare ordine e di imparare il “come si fa”.

Bibliografia
– Ammaniti M. (2015), La famiglia adolescente, La Terza, Bari.
– Lupi A.,Zavarise G. (2014), La rappresentazione del Sè, dell’oggetto genitoriale e d’amore, in Cooperativa Minotauro (2014). La bruttezza immaginaria – Intervento clinico con ragazzi ritirati. Attidell’evento culturale tenutosi a Milano il 9 e 10 maggio2014.
– Maggiolini A., Charmet G.P. (2004) (a cura di), Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano.
http://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/Generalistic-images/Documenti/ricerca.pdf
– Preciado P. B. (20015), Testo tossico, Fandango Libri, Roma.

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