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Approfondimenti

Il corpo celato. Riflessioni cliniche sui ragazzi ritirati

Erika Hopper

Erika Hopper

Scritto da Roberta Campo

Era il 2000 quando uscì “Thomas in Love”, un film che affronta la storia di un ragazzo di 32 anni terrorizzato dal mondo e dalla possibilità di entrare in contatto con le persone che vi abitano. Thomas, quindi, sceglie di ripiegare nel mondo protetto della sua casa, intrattenendo relazioni esclusivamente di carattere virtuale. Nel film non c’è mai la possibilità di scrutare o intravedere il volto di Thomas: per certi versi è come se il regista Pierre Paul Renders avesse colto un aspetto centrale della psicopatologia della postmodernità, caratterizzata dall’uso del corpo (manipolato, celato, aggredito) come mezzo per esprimere il proprio disagio. Nel caso di Thomas, così come per tanti ragazzi ritirati socialmente che soffrono nascondendosi nella propria stanza e rifugiandosi in un mondo popolato da un immaginario incomprensibile ai più, il corpo deve essere sottratto al contatto, al tatto, alla relazione. Il corpo è un traditore perché svela emozioni che vorrebbero rimanessero nascoste e diventa fonte di vergogna.

L’adolescenza di oggi è la risultante di diversi fattori familiari, politico-economici e culturali che la tratteggiano in maniera completamente diversa da quella che abbiamo visto descritta in film come “Breakfast club” o “L’attimo fuggente”.

Per comprendere meglio come è cambiata l’adolescenza ma anche e soprattutto il modo in cui oggi si esprime il disagio è necessario interrogarsi e comprendere il modo in cui i fattori culturali hanno delle ricadute sui processi di soggettivizzazione.

“Vittima” di questa cultura narcisistica è la famiglia che sempre più si interroga sulle caratteristiche che dovrebbe avere un buon genitore, impegnata nell’elaborazione di modalità comunicative e simboliche più consone alla realizzazione della figura del genitore amato e amabile sempre e comunque. Accoglienza e protezione sembrano essere le parole d’ordine della nuova famiglia: tutto è pensato per aiutare il figlio a divenire poliedrico e adattarsi a qualsiasi contesto, per sostenerlo a coltivare la propria indole e attitudine, per fargli esprimere al meglio le proprie potenzialità (rischiando di alimentare a volte il senso di onnipotenza e di affermazione di se oltre ogni limite). La relazione empatica garantisce il legame e permette di portare avanti il progetto educativo.
Le famiglie affettive, liquide, viscose, nella propria quotidianità, come ci descrive perfettamente Ammaniti (2015), mettono in scena delle pratiche apparentemente innocue, mascheratamente paritarie che spesso creano confusione e annullano le differenze generazionali, creando spesso sofferenza quando non un vero stallo educativo. Al contrario, nel loro percorso di crescita, gli adolescenti hanno bisogno delle differenze in quanto queste sostengono il percorso evolutivo e danno senso alla relazione e al legame.
Spesso il genitore veste i panni del giovane, invadendo il campo generazionale identificatorio dell’adolescente, si propone agli occhi del figlio come prestante, alla moda, eternamente complice, anche se in realtà, quando si racconta all’interno di una relazione terapeutica, egli ci parla di una propria difficoltà narcisistica ad accettare i propri limiti e mancanze; la competizione con il corpo giovane del figlio sembrerebbe volere scotomizzare la paura del proprio decadimento legato al passar degli anni.

Oggi, in realtà, siamo in presenza di una vera e propria emergenza pedagogica, i genitori si confrontano con domande semplicemente impensabili dai loro genitori e si chiedono costantemente quali possano essere le modalità educative più adeguate per sostenere il proprio figlio nella crescita. E le risposte a queste domande vanno trovate velocemente, perché una nuova emergenza è lì pronta a prendere il posto della precedente. Non ci si finisce di chiedere quante ore dovrebbe passare il proprio figlio davanti al pc che sorge la nuova domanda sull’età per accordarsi con i figli rispetto al possesso dello smartphone. Le domande che si fanno i genitori oggi sono tante e molteplici; sempre più spesso assistiamo a genitori preoccupati o in difficoltà nello stabilire i criteri per stabilire il limen tra normalità e patologia. Esce troppo o troppo poco? Il numero di amici è sufficiente? A cosa addebitare il suo silenzio relativo alla sfera affettiva e sentimentale?
Consapevoli che spesso il disagio è muto fino a quando non lo vedono esplodere fantasticano di spiare il figlio sul confine intimo e segreto della sua stanza.
È chiaro che, spesso, dietro tutte queste domande si cela il fantasma del ritiro sociale, isolamento, depressione.

Esposto alla pressione del mostrarsi buono e competente non è solo il genitore ma anche il giovane impegnato nella definizione della propria identità.
La società postmoderna, infatti, è caratterizzata dalla ricerca vorace e frenetica di oggetti, il cui possesso viene rappresentato dall’individuo come motivo di realizzazione personale e di completezza, unico modo per realizzare (illusoriamente) il proprio ideale dell’IO. Gli oggetti permetterebbero per certi versi di reggere le aspettative di fascino e bellezza, di essere iperprestanti ed efficienti. All’interno di un modo sempre in connessione, il nuovo mandato sociale è quello di essere sempre vigile, attento e pronto. Se da in lato però questa connessione costante è impossibile da reggere, dall’altro sembra altrettanto impossibile sottrarvisi, se da un lato permette di nascondere e camuffare a piacere il “vero Se”, dall’altro ci espone ad una continua assenza di privacy. L’uso dei social e di tutti i nuovi strumenti di comunicazione comporta una “socialità allargata” dove tutti potenzialmente possiamo essere in contatto con tutti. Per i “nativi digitali” ciò sicuramente comporta un nuovo modo di “sentirsi parte” , rappresenta un nuovo modo di condivisione e di tessitura di relazioni significative. Ma se per qualcuno l’uso di tali tecnologie è abbastanza integrato e connesso funzionalmente con il perseguimento dei compiti evolutivi, per altri adolescenti il computer e internet diventano u n modo per sottrarsi al mondo, scegliendo la vita al di la dello schermo.
Non dovrebbe per niente sorprendere, quindi, che il malessere oggi possa prendere la forma dell’isolamento e del ritiro, in quanto questa soluzione, per quanto estrema, permette al soggetto di evitare il confronto con la realizzazione di ideali sociali e familiari irraggiungibili e contemporaneamente consente al ragazzo un riparo in attesa che le acque si calmino e ove può riprendere il respiro ed elaborare con calma strategie evolutive più convincenti.

All’interno della nostra pratica clinica quotidiana non ci troviamo più ad ascoltare adolescenti che si sentono soverchiati dal senso di colpa e della paura della reazione dei propri genitori laddove scoperti per qualche trasgressione; al contrario ci troviamo davanti ad adolescenti che soffrono di una emorragia del proprio valore narcisistico. Gli adolescenti di oggi ci parlano, in contrapposizione agli ideali proposti dalla società, della loro paura di non farcela, di non essere all’altezza delle aspettative, di non essere adeguati, di non essere in grado di sostenere la competizione sociale.

“Se un tempo c’era il problema di dover reprimere i propri desideri per adattarsi a nuovi ruoli sociali ora i nostri giovano hanno a che fare con un ideale dell’io che impone di manifestare i propri desideri, non preparando questi ragazzi allo scontro con la realtà e i suoi limiti. Il sentimento che nasce da questo shock è la vergogna che è difficile da debellare, costringendo quindi il soggetto ad annullarsi completamente. Sono ragazzi che desiderano scomparire ossia sottrarsi allo sguardo inquisitore dell’altro, che diventa intollerabile” (Lupi, Zavarisi, 2014, pag.77)

I ragazzi che oggi sembrano essere insensibili a qualsiasi richiamo d’autorità sono gli stessi che sono pronti a “crollare” al minimo insuccesso personale. Una caratteristica che ci parla di una fragilità narcisistica, che vede l’adolescente votato ad una maggiore libertà ma contemporaneamente esposto alla perdita e alla frustrazione. Nel corso della crescita hanno interiorizzano un mandato genitoriale che li vuole protagonisti di un “Piano Grandioso”, destinato prima o poi alla prova di di realtà.
Nella cultura iperprestazionale, come ci ricorda Preciado (2015), il modello normativo è quello visivo: non sembra essere un caso, infatti, che in una società in cui l’ostentazione del corpo, la ricerca di visibilità, l’ideale performante e performativo la fanno da padrone, l’adolescente scelga il proprio corpo quale teatro per esprimere il dolore mentale relativo alla crescita.
Charmet lo descrive bene

“il corpo dell’adolescente è spesso luogo di espressione della sofferenza e strumento di comunicazione di conflitti mentali profondi” (Charmet 2004).

Gli adolescenti devono imparare a pensare il proprio corpo ma spesso quest’ultimo diventa un vero e proprio persecutore fonte di angoscia; il corpo infatti quando viene vissuto come un traditore prende le sembianze di un persecutore.
La crescita impone un cambio di specchio sociale: cambiano gli interlocutori dai quali ci si aspetta approvazione e riconoscimento e questi nuovi interlocutori non hanno sempre il volto protettivo e caloroso dei genitori. I vestiti, l’abbigliamento, le mode sono la cartina tornasole per capire a che punto sono gli adolescenti rispetto al proprio percorso di crescita; tramite l’accesso ad un codice comune e condiviso dalla stessa generazione, gli adolescenti fanno capire ai pari-età quanto si sono spinti oltre nel processo di mentalizzazione del corpo e della propria sessualità.
I ragazzi di oggi entrano nella fase puberale pieni di aspettative positive e a volte grandiose, con una rappresentazione più o meno nitida di quello che accadrà; ne ha parlato coi genitori, con gli insegnanti, ha ascoltato programmi in tv che esplicitamente parlano di una sfera che per anni è rimasta a gestione privata; in questo scenario nessuno si è spesso occupato realmente di sostenere l’esperienza emozionale relativa alla crescita. E così, quando al momento del debutto sociale le cose non vanno per come si era immaginato, gli adolescenti possono cadere nelle soluzioni chirurgiche o chimiche offerte dalla stessa società che ne origina la sofferenza (dipendenze, anoressia, ritiro sociale…).
Il ragazzo ritirato vuole sottrarsi allo sguardo reale dell’altro proprio come Thomas. Spesso sono convinti di non avere nulla da dare, soffrono per qualsiasi imperfezione possono rintracciare nell’immagine di sé e tale “bruttezza” viene isolata nel corpo facendo del corpo un vero e proprio persecutore. L’adolescente fa in effetti fatica a mentalizzare in questi casi le trasformazioni puberali che rendono il corpo goffo, impacciato e a volte anche un pò sgraziato.

Il corpo che con l’avvento della pubertà aveva promesso felicità, prestanza, potenza, forza, tradisce perché sede delle manifestazioni umorali che mettono a nudo la propria fragilità.
Il rapporto con l’altro è vissuto come doloroso, in quanto ci si espone al giudizio e alla paura di essere isolati e rifiutati. Il giovane che sperimenta il vissuto di inadeguatezza e di non essere all’altezza è spesso destinato ad essere preso in ostaggio della vergogna. Questa ha sicuramente un potenziale dirompente con conseguente sensazione di sfaldamento dei confini identitari. I ragazzi ritirati desiderano sottrarre il corpo, quel corpo che si vergogna e che tradisce alla vista dell’altro, non senza un vissuto di perdita. I ragazzi, infatti, desidererebbero avere relazioni di amicizia e sentimentali, ma ne rifuggono accuratamente in quanto l’altro potrebbe rifiutare e assumere la maschera di quel giudice dal quale tanto acrobaticamente rifugge.

In scacco vi è il compito evolutivo inerente la mentalizzazione del proprio corpo sessuato, complementare mortale, e virile (la maggior parte dei ragazzi ritirati sono di sesso maschile). Conseguentemente, nella scelta di isolarsi e di sottrarsi allo sguardo altrui si può rintracciare il tentativo di fermare il tempo e posticipare a data da destinarsi il proprio debutto sociale, nell’attesa di fare ordine e di imparare il “come si fa”.

Bibliografia
– Ammaniti M. (2015), La famiglia adolescente, La Terza, Bari.
– Lupi A.,Zavarise G. (2014), La rappresentazione del Sè, dell’oggetto genitoriale e d’amore, in Cooperativa Minotauro (2014). La bruttezza immaginaria – Intervento clinico con ragazzi ritirati. Attidell’evento culturale tenutosi a Milano il 9 e 10 maggio2014.
– Maggiolini A., Charmet G.P. (2004) (a cura di), Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano.
http://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/Generalistic-images/Documenti/ricerca.pdf
– Preciado P. B. (20015), Testo tossico, Fandango Libri, Roma.

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il corpo della vergogna. adolescenza e nuove forme di malessere

Il corpo della vergogna. Adolescenza e nuove forme di malessere

Scritto da Erika Di Cara

Le forme del malessere oggi assumono un significato ancora più pregnante se guardate in relazione al contesto in cui viviamo. Ciò non vuol dire attenzionare il disagio fuori da una dimensione clinica ma, al contrario, guardare alla clinica anche attraverso i dispositivi economici e di potere che caratterizzano la nostra epoca.

Gustavo Pietropolli Charmet, ad esempio, ci parla di una nuova categoria del disagio che definisce “la paura di essere brutti”. Sentirsi brutti, ci dice l’autore, sembra riconducibile alla mostruosità, al difetto grave e insopportabile. L’emozione dominante sembra essere la vergogna. La bruttezza diventa l’idea prevalente e muove verso comportamenti che spesso diventano patogeni, può portare a comportamenti sempre più restrittivi, atti a modificare il corpo come nell’anoressia, a sottrarlo allo sguardo sociale come nel ritiro sociale, a maltrattarlo come nell’autolesionismo. Charmet sottolinea come, in un mondo in cui il corpo non è più luogo di pudore, in cui l’eros e la sessualità sono ostentate,  liberate dalle forze repressive di un tempo, il corpo, oggi, non è più luogo della colpa ma della bruttezza e, in quanto tale, viene manipolato, attaccato, maltrattato o ritirato dallo sguardo dell’altro. Tale forma di malessere investe in modo prevalente gli adolescenti. L’adolescenza è la fase in cui il compito evolutivo predominante è la costruzione della propria identità e, proprio per questo, le tematiche legate ai cambiamenti del corpo, alle aspettative familiari e sociali rappresentano i punti critici di tale passaggio. La bruttezza non coincide necessariamente con un dato percettivo oggettivo ma sembra riemergere sulla pelle a partire da sensazioni più profonde di inadeguatezza. È come se di fronte a sensazioni di goffaggine relazionale, inadeguatezze emotive o cognitive, queste venissero sentite dalla persona come un dato concreto di bruttezza. Cambiando prospettiva si può dire che la sensazione di non poter essere totalmente all’altezza delle aspettative sociali, spesso eccessive, affiora sulla pelle facendo diventare mostri.

“La società del narcisismo, del successo, della visibilità sociale, dell’eclisse dell’etica a favore dell’estetica, della soggettività ad oltranza (…) concorrono a creare nel mondo interno dell’adolescente ideali crudeli di bellezza, di fascino, di carisma personale anche modelli educativi della nuova famiglia. (…) Tende a creare nella mente dell’adolescente fragile e incerto degli ideali prescrittivi crudeli, non solo rispetto a ciò che è necessario fare ma anche a ciò che è necessario essere per aspirare al legittimo successo e alla quota di visibilità e popolarità auspicabile. Gli adolescenti sono più esposti a modelli proposti dal mondo relazionale in cui cresce, perchè la ricerca della propria identità, valore, verità, stile fa parte degli obblighi evolutivi più avvertiti.” (Gustavo Pietropolli Charmet, la paura di essere brutti)

A questo proposito è interessante il modo in cui P. B. Preciado nel suo “Testo tossico”, offre una cornice di riferimento rispetto alla definizione degli elementi politici, sociali, mediatici che caratterizzano la nostra epoca. In particolare, riprendendo la lezione di Foucault, guarda a come si sono modificati i dispositivi sociali e di potere e come questi influenzano in modo impercettibile le nostre possibilità di scelta. Pone l’accento sul circuito eccitazione-frustrazione come loop che muove e determina il consumo.

Il consumo si muove in modo orgiastico alla ricerca dell’oggetto o del farmaco che può permetterci di essere all’altezza di aspettative di benessere, fascino e perfezione. L’istigazione al consumo viene continuamente fomentata dai media, dai social, viene assorbita da ognuno di noi quasi come implicito sociale. Cela la promessa che nell’acquisto dell’oggetto X si possa conquistare una porzione di bellezza e giovinezza. Tutto ciò avviene dentro un circolo frustrazione-eccitazione dove il loop gira vorticosamente tendendoci verso la ricerca di una giovinezza-bellezza a tutti costi. Nel mercato che auspica la perfezione non ci si può concedere nessun tipo di imperfezione né fisica né psichica. Ci si deve muovere verso standard di efficienza e perfezione. Nessuno è assolto e il corpo diventa un elemento quasi innaturale, laddove, è necessario cancellare tutti i segni del tempo e camuffare ogni possibile mutamento foriero di decadimento e invecchiamento. L’imperfezione è determinata da tutto ciò che differenzia da un modello di bellezza-normalità.

Se da un lato l’adolescente, in un contesto del genere, si sente schiacciato da aspettative di efficienza e perfezione che rendono il suo compito evolutivo arduo, dall’altro lato, l’interfaccia, è un mondo adulto che, seguendo le prospettive che delinea Preciado, deve cancellare l’orizzonte della vecchiaia e assimila la giovinezza come ideale da ricercare e replicare a tutti i costi.

In questo senso si può dire che il corpo della vergogna non è solo quello puberale, quello dell’adolescente che porta con sé la separazione col tempo dell’innocenza, il tempo dell’infanzia, ma anche quello del genitore che nella sua maturità deve fare i conti con un corpo che solca una ulteriore separazione, quella con la propria giovinezza.

In questo scenario trova spazio l’immagine della famiglia adolescente di Massimo Ammaniti, dove dal più piccolo dei figli sino ai genitori si è in un solo corpo: tutti vestiti allo stesso modo, dentro una intimità viscerale dove non si sa bene chi è genitore di chi. Dove il bisogno di condivisione sembra assolvere il bisogno di una giovinezza eterna. Ammaniti ci presenta il ritratto di una famiglia caratterizzata sempre più dall’elemento della condivisione e dell’intimità. L’adolescenza, che richiede un confine e una distinzione dal mondo degli adulti importante e fondamentale, crea uno stravolgimento inaccettabile. Oggi, i genitori tendono non a porsi sulla sponda del “mondo degli adulti” ma a provare a raggiungere il mondo adolescenziale, a prolungare all’infinito la fase di condivisione. In tal modo si generano le famose confusioni delle “madri-amiche-sorelle”, dei padri a cui si può dire tutto. La deriva a cui si arriva è spesso rappresentata dalla creazione di un forte ostacolo al normale processo di separazione distinzione.

“Il rischio, quando figli e genitori condividono in tutto e per tutto l’esperienza sessuale e affettiva, è che gli adolescenti non riescano a dare profondità e spessore alla propria sessualità. (…) Quando la familiarità è eccessiva, quando l’intimità è svilita, la sessualità non è più un motore importante di emancipazione” (Massimo Ammaniti, la famiglia adolescente)

La costruzione di una propria identità comporta invece la ricerca di un confine attraverso il quale differenziarsi e affermare il proprio modo di esistere. Affinché ciò avvenga è necessario trovare una propria intimità, segretezza, la possibilità di chiudere la porta della propria stanzetta. È come se mancasse la possibilità di accettare la normale evoluzione e il dolore necessario che si accompagna a questa. Laddove, crescere comporta una separazione e, quindi, una esperienza anche dolorosa ma, questo “anche doloroso”, diventa oggi qualcosa di traumatico e intollerabile, per cui, la “soluzione” è rappresentata nello spostamento in avanti del momento del distacco e quindi dell’emancipazione da parte dei nostri figli.

Tornano in mente, per concludere, le parole de Il corpo del reato, brano contenuto nel primo disco di Iosonouncane, progetto musicale che sperimenta sonorità e narrazioni a metà strada tra cantautorato ed elettronica. Il brano, che sceglie un punto di narrazione molto audace, parla dell’angosciato tentativo di bloccare l’emancipazione ed il distacco, di riportare a casa un figlio ormai lontano.

“Alzati, andiamo, non fare il cretino
non fare il bambino ti porto a casa ti porto in braccio…
Andiamo a casa ti tengo forte andiamo.
Non ci pensi a tua madre?
Ma pensa a tua madre è rimasta lì inchiodata,
crocifissa sul portone di casa, in bella mostra in mezzo la strada…
Non dice niente sospira soltanto…
E lo sa meglio di me, lo sa meglio di te, che per un figlio appena dato
uno nuovo tale e quale è ricevuto e me lo ha chiesto balbettando…
Andiamo lasciati sollevare, che pensi di fare?
Se pensi di fare qualcosa di originale ti stai sbagliando.
Non c’è niente di più scontato di più normale.”

(Iosonouncane, Il corpo del reato)

 

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Laboratorio Gruppoanalisi Palermo

Centro clinico – Un progetto di psicoterapia democratica

Il progetto del centro clinico nasce dall’elaborazione del concetto di psicoterapia democratica come espressione di servizio accessibile a tutti.

La psicoterapia democratica ha come strumento di cura la psicoterapia ad orientamento psicodinamico e come statuto quello di creare delle condizioni di accessibilità ad ampio raggio. In termini concreti questo si traduce in un tariffario differenziato e conforme a diverse fasce di reddito. Con questa peculiarità si intende colmare una lacerazione creata dal corto circuito tra disagio e possibilità di cura.

In relazione ai tagli riguardanti la sanità pubblica il dipartimento di salute mentale ha ridotto notevolmente le risorse interne e, di conseguenza, la possibilità di cura. Allo stesso tempo la crisi ha reso impraticabile, per buona fetta della popolazione, rivolgersi al privato. L’aumento della crisi economica, la diminuzione delle risorse curanti coincidono inoltre con un aumento del malessere sociale.

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modello_transpersonale

Rilettura teorico-clinica del modello transpersonale gruppoanalitico

In questo articolo si approfondirà il repertorio di conoscenze del modello gruppoanalitico in relazione delle acquisizioni clinico-scientifiche maturate negli ultimi anni in diverse aree.

A ben vedere il costrutto di transpersonale proposto Da Menarini e Pontalti, ed in particolar modo da Lo Verso, rappresenta un’ampia e articolata trama concettuale all’interno della quale possono essere collocate le direttrici teorico-metodologiche più utili per una clinica del/nel nostro tempo. Tutti i versanti del transpersonale risuonano in relazione alle trasformazioni sociali e culturali e alle acquisizioni scientifiche degli ultimi anni. In questa sede s’intende dare risalto alle specifiche implicazioni per ciascuno di essi.

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La violenza psicologica: aspetti psicologici e clinici nelle relazioni affettive patologiche

Nel complesso fenomeno della violenza alle donne, di cui tentiamo di dare una lettura non solo culturale, ma anche relazionale, emergono diversi quadri patologici.

Quello che segue è una delle combinazioni possibili che vedono l’incontro tra una dimensione fortemente narcisistica da un lato e una incentrata sulla dipendenza dall’altro. L’illustrazione data non esaurisce l’esplorazione di tale fenomeno, ma permette l’analisi di una dinamica frequente, in cui il femminile diventa ricettacolo di aggressività e, nei casi peggiori, di violenza esplicita.

Cosa permette di riconoscere una relazione di coppia disfunzionale? Quale è la dinamica di una coppia in cui uno dei partner tende ad annullare, distruggere, uccidere psichicamente l’altro?

Nella maggior parte dei casi la vittima è una donna, anche se è possibile che si verifichi il contrario, in quanto culturalmente la donna ha avuto da sempre all’interno della coppia il ruolo più sacrificale, colei che deve “sopportare”, deve essere accogliente, compiacente, paziente. Lentamente questo modello culturale si sta modificando ma c’è ancora molto da fare anche a livello sociale per cambiare quanto è radicato dentro, che ci appartiene.

In un periodo storico in cui la famiglia non è più un’ istituzione con legami forti così come in passato, quando funzionava come contenitore emotivo, è importante che altre istituzioni, come quella scolastica, si impegnino in un’ottica di prevenzione per educare all’affettività, per imparare a riconoscere all’interno di un rapporto affettivo, di un rapporto di coppia, quello che è sano da quello che non lo è, quello che viene spacciato per amore ma che invece di amore non ha proprio niente. Il riconoscimento è il primo passo, che sembra scontato ma non lo è. In questo senso la violenza fisica, di cui rimangono i segni sul corpo, non lascia alcun dubbio sulla violenza subita, ma se il partner mette in atto tutta una serie di manipolazioni, insinuazioni, denigrazioni sottili, tutto questo assume una veste di ambiguità che è anche difficile da capire, interpretare. E spesso le donne interpretano, decodificano in modo erroneo alcuni segnali.

Mi chiama in tutti i momenti della giornata, vuole sapere con chi sono, cosa sto facendo … quanto ci tiene a me!” Arrivare a capire che più che attenzione verso l’altro è un bisogno di controllo non è proprio immediato. “Non vuole che esco con la mia amica, che vado in palestra, è molto geloso … quanto mi vuole bene!” Questo non è proprio amore, ma piuttosto possesso dell’altro.

E’ possibile rintracciare dei tratti comuni, delle caratteristiche che è possibile identificare negli uomini che utilizzano nella coppia modalità di prevaricazione, potere, violenza?

Sono degli individui che hanno dei problemi nell’area delle relazioni, cioè persone che funzionano normalmente da un punto di vista cognitivo, lavorativo, ma hanno delle grandi problematiche nelle relazioni e nell’affettività e che in termini tecnici rientrano nei Disturbi di personalità, soprattutto nell’area del Narcisismo.

Come si comporta il Narcisista quando conosce una donna che diventerà una sua “preda”, quali sono i possibili passaggi relazionali di questa coppia?

Nella fase iniziale solitamente il Narcisista è un grande seduttore; queste storie spesso nascono all’insegna dei grandi corteggiamenti, grandi adulazioni, attivando un grande coinvolgimento del partner che si sente da subito molto coinvolto e ha la sensazione di vivere il rapporto più importante della vita. Il narcisista riesce così a instillare l’idea che lui solo sa che cosa l’altro veramente vuole, di che cosa ha veramente bisogno. Lei lo lascia fare, magari si sente lusingata: nessuno l’ha mai capita così. Il narcisista costruisce la sua tela, lentamente, non svelandosi immediatamente per quello che è, ma cercando di portare la sua preda ad uno stato totale di sudditanza psicologica. E’ ben accorto dallo svelarsi immediatamente, lo fa quando si rende conto che l’altro ormai è totalmente dentro la relazione.

La dinamica perversa ha lentamente e impercettibilmente eroso e disorientato il senso critico della «vittima»e il vero e proprio maltrattamento comincia a manifestarsi proprio quando la «vittima» non è in grado di riconoscerlo. La perdita della capacità di fare un sicuro esame della realtà è, infatti, una delle conseguenze della relazione con un narcisista perverso: una delle più dolorose.

Narciso è un uomo che vuole specchiarsi nello stagno e guardare la propria immagine riflessa, cioè l’altro deve rimandare la sua immagine. L’altro non esiste come entità a sé stante, ma serve soltanto a rimandare la sua immagine. Per il narcisista gli altri sono vissuti come persone che non hanno un’esistenza o dei bisogni propri e la difficoltà a stare in relazione si manifesta nell’incapacità di provare sia gratitudine che rimorso o senso di colpa, che è sempre dell’altro, nell’incapacità di ringraziare e di chiedere scusa.

E’ importante chiarire che non tutti i narcisisti agiscono la violenza psicologica. L’elemento che determina la violenza oltre al narcisismo è l’aspetto della perversione. Il perverso, nell’usare l’altro, implicitamente lo disprezza, lo sminuisce in quanto ha bisogno di trasformare la relazione in rapporto di forza e di potere.

Lo scopo del narcisista perverso è quello di controllare l’altro, ma non soltanto di fargli mettere in atto un certo tipo di comportamenti, ma ancor più di controllarlo dall’interno, di cambiare il suo pensiero, il suo modo di essere. La relazione con un partner narciso è una relazione di potere, dove non c’è reciprocità, perché l’altro non è visto nella sua identità, riconosciuto per quello che è, ma soltanto per quello che gli serve cioè dare conferma della sua identità. Quello che accomuna tutti i narcisi descritti è la totale mancanza di empatia, di sentire le emozioni che l’altro prova, di sentire e riconoscere i suoi bisogni più profondi. Il narcisista tratta l’altro come un oggetto, come una cosa da possedere. Può mettere in atto meccanismi di controllo, cercherà di limitare il tempo che la partner trascorre in modo autonomo, l’altro alla fine deve fare e essere come lui vuole.

Quali sono i passaggi successivi all’interno di questo tipo di relazione? In che cosa consiste la Violenza Psicologica?

Le denigrazioni, le critiche sono spesso dirette alle idee del partner, alle sue scelte, al suo pensiero, e mettono in dubbio le sue capacità critiche. Tutto questo avviene talvolta in modo ambiguo, dicendo una cosa e poi negando di averla detta, alludendo ma non dicendo chiaramente, per cui per il partner è più difficile difendersi da qualcosa che non risulta esplicito, diretto. E quando la donna cerca di reagire, si sente accusare di essere troppo sensibile, di non essere sicura di sè. Non può parlarne, non sa come affrontare il problema: lui banalizza, infatti, ogni tentativo che lei fa di parlare di ciò che avviene nella relazione, squalificandola. Così lei tace, e in questo modo finisce per isolare sé stessa e proteggere lui. Poi gli attacchi si moltiplicano, si passa alla derisione, agli insulti, alle minacce. La donna comincia a pensare, anche perché è questo che lui le suggerisce, di essere lei quella sbagliata, quella che non capisce, e cerca di adeguarsi alla situazione, di farvi fronte in qualche modo. E siccome alla base c’è un sentimento di poco valore, nel momento in cui l’altro va a confermare questo sentimento interno di non valore, la donna se lo prende e si colpevolizza, si attribuisce la responsabilità di ciò che non va all’interno della relazione. Come dire, se il mio partner è così aggressivo nei miei confronti è perché io ho fatto qualcosa di sbagliato.

Entrambi i partner hanno lo stesso problema alla base, sentire di valere poco, ma il Narcisista lo nega, non lo riconosce, ha però bisogno dell’altro per mantenere alto il senso di sé, per non sentire il suo vuoto interiore. La dinamica allora si incastra perfettamente, perché se da un lato c’è qualcuno che si colpevolizza, dall’altro invece c’è un altro che non si attribuisce mai la colpa ma che al contrario la riversa all’esterno da sé, sul partner, sui familiari, sul mondo intero.

A un certo punto accade qualcosa che lei non avrebbe mai pensato di poter sopportare: lui, ad esempio, la offende davanti agli altri, oppure la minaccia, oppure spacca davanti a lei oggetti a cui lei tiene… e lei si rende conto, diversamente da come aveva pensato prima, di potere sopportare. Il limite è ormai spostato, e lei potrà sopportare ancora e ancora… Gli uomini provano, dopo questi episodi, calma, calo di tensione, come il «ripristino di una Gestalt interiore», uno strano stato di tranquillità.

Il passo successivo è l’isolamento: la donna nasconde all’esterno ciò che realmente accade fra loro, fino ad un certo punto anche a se stessa, finendo con il proteggere il partner che la maltratta. L’isolamento, per il maltrattante, è fondamentale perché lo scopo è quello di far si che la donna perda tutta la rete di relazioni affettive (familiari, amicali, terapeutiche) con l’obiettivo di poter continuare a perpetuare la sua azione di distruzione e di esercizio del potere in modo indisturbato. Come fa? Insinuando e mettendo zizzanie, alimentando i conflitti, screditando la partner o gli altri, a seconda di ciò che è più facile.

Il rendersi conto del maltrattamento, oltre che molto difficile sul piano cognitivo, è altrettanto difficile e doloroso su quello emotivo perchè significherebbe ammettere che il rapporto di coppia, quel rapporto che sembrava così importante, è fallito, che lui non è quello che lei aveva pensato che fosse. Anche perché il perverso relazionale non manca completamente di empatia, ma l’empatia, quando è presente, è totalmente asservita alla strategia controllante-premurosa/punitiva.

La donna adesso ha paura. Teme il rimprovero, la battuta sarcastica, la minaccia espressa a bassa voce e in tono cupo, oppure gridata durante un’esplosione di collera. Fa di tutto per rabbonire il compagno, ogni suo sforzo va in questa direzione. Farebbe qualunque cosa pur di strappargli un sorriso, un cenno di assenso, un’approvazione. Mette in atto delle strategie “preventive” per evitare le sue reazioni.

Tutti questi comportamenti, ripetuti quotidianamente nel tempo, producono nel partner una vera e propria sindrome, con disturbi psicosomatici, ansia,attacchi di panico, stati depressivi, perdita dell’autostima, che quindi vanno chiaramente ad incidere anche nelle attività lavorative e possono portare in casi estremi anche al suicidio. Queste modalità di violenza psicologica uccidono la psiche anche per la loro azione ripetuta nel tempo perché quello che poi spesso caratterizza queste relazioni è anche la difficoltà ad uscirne, con ripetuti tentativi di chiudere il rapporto, e in cui subentra un aspetto fondamentale che è quello della dipendenza che poi è una dipendenza reciproca, agita in modo diverso dai due partner nella dinamica relazionale. In tutti i rapporti affettivi c’è una quota di dipendenza che a che fare con il legame, con l’importanza che l’altro riveste nella propria vita. In questi casi però la relazione porta all’annullamento di sé e al vivere in funzione dell’altro. Si parla oggi di nuove dipendenze, cioè di dipendenze in cui si ha un rapporto con l’altro come il tossicodipendente ha un rapporto con la sostanza. E questi sono dei rapporti in cui ognuno dei due è funzionale all’altro, cioè la dipendenza è reciproca.

E’ possibile tracciare un profilo delle donne che creano questo tipo di rapporti? E’ possibile rintracciare dei tratti e dei meccanismi generali e più frequenti, non è detto che tutte le donne rientrino necessariamente in queste tipologie.

1 La salvatrice. L’illusione dell’ Io ti cambierò

2 La donna in grado di sopportare tutto

3 La donna che cerca di esistere attraverso l’altro

Sono rapporti in cui si vive l’illusione di un rapporto che adesso non è come lo si vorrebbe ma si aspetta, si attende che succeda qualcosa nel futuro “Oggi non l’ha capito ma domani cambierà”Oggi non ha lasciato sua moglie ma domani lo farà” “Io riuscirò a farlo cambiare”. Perché la questione alla fine è anche quella. Alla base c’è un problema di bassa autostima, cioè di una falla nel senso di sè, nella propria sicurezza, e quindi il tentativo è quello di provare a dimostrare di valere, di essere scelte o di riuscire a modificare un’altra persona. In una partita che però è persa in partenza. E tutto questo ad un livello di profondo serve a riprodurre nella relazione attuale una dinamica che ha a che fare con un’altra relazione, ovvero quella più antica quella con uno dei genitori. E’ fondamentale infatti per la donna guardare a quegli aspetti di fragilità che hanno portato a vivere queste storie perché altrimenti il rischio è di passare da un partner abusante all’altro, perché bisogna fare i conti anche con il vuoto che queste storie per quanto distruttive riempiono perché a monte c’è un buco individuale profondo che si ripropone quando il rapporto si interrompe. Sganciarsi da queste dinamiche, vuol dire da un punto di vista psichico morire due volte, la prima all’interno della relazione, la seconda uccidendo quella parte di sé fragile, immatura, bambina, dipendente, che ha avuto bisogno di quel rapporto per trovare un riconoscimento di sé, ovviamente in modo patologico.

Filippini S.: Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia. Franco Angeli, 2005
Hirigoyen M.F. : Molestie Morali, Einaudi, 1998
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gruppo

Psicoterapia domiciliare con adolescenti in ritiro sociale

Tra i servizi elaborati all’interno del centro clinico koinè si annovera quello della psicoterapia domiciliare con adolescenti in ritiro sociale.

Nel trattamento di adolescenti in ritiro sociale uno strumento elettivo, a completamento di un intervento più complesso, è caratterizzato dall’intervento domiciliare.
Il quadro in cui si inserisce è riferito ad una presa in carico complessa dove parte del lavoro viene sviluppato con i genitori in studio e parte con l’adolescente in domiciliare.
Tale organizzazione del lavoro è pianificata nel momento in cui lo stato di chiusura del ritirato è tale da non permettere un intervento diretto con l’adolescente all’interno dello studio.

Da un lato il lavoro con i genitori è finalizzato ad accogliere la prima richiesta d’aiuto, dei quali loro sono i portavoce, ad aiutarli a fronteggiare la difficoltà ad avere a che fare con la sofferenza e la chiusura del figlio, a riformulare il loro ruolo e a trovare nuovi canali di comunicazione col proprio figlio. Tutto ciò passa attraverso la possibilità di generare una comprensione profonda delle problematiche che hanno portato al blocco evolutivo.

La famiglia, laddove è possibile ed è funzionale al lavoro, viene coinvolta e ascoltata nella sua interezza, genitori, fratelli, nonni. I nonni, quando ci sono e offrono la loro disponibilità, rapresentano una buona risorsa sia perché depositari di storie generazionali più antiche, spesso pregne di miti familiari, sia perché, talvolta, a cospetto del giovane paziente forniscono una presenza meno satura da livelli conflittuali che solitamente attraversano il rapporto genitori figli.

L’intervento familiare viene modulato di volta in volta, dopo aver valutato risorse e difficoltà, e pur coinvolgendo inizialmente la famiglia allargata mantiene come interlocutori privilegiati i genitori e il figlio che esprime il malessere.
L’obiettivo è quello di agire sul clima familiare, allentare la tensione, creare nuovi canali di comunicazione e aiutare il ragazzo, portatore del malessere, a uscire lentamente dall’isolamento in cui sembra recluso.

Psicoterapia domiciliare
Il terapeuta si muove verso il paziente, nel significato letterale del termine, andando verso i suoi luoghi che, al momento del ritiro, sono inizialmente rappresentati dallo spazio ristretto della propria stanza e da quello virtuale a cui ci si affaccia attraverso il monitor. In prospettiva il terapeuta domiciliare prova ad entrare nei luoghi fisici e virtuali del ragazzo in modo discreto e modulato rispetto al bisogno del soggetto di avere delle presenze esterne e rispettandone al contempo il timore di essere invaso.
Lo spazio terapeutico si muove flessibilmente sul filo che separa desiderio e timore, prova a diventare timoniere di nuove rotte verso l’esterno in una gradualità che tenga conto della fragilità dell’utente e del suo bisogno di rassicurazione, di punti di appiglio, di lentezza.

Il terapeuta prova a diventare gradulamente connettore di nuove possibilità di inserimento, facilitatore di nuove capacità e abilità sociali.
Il riattraversamento insieme, terapeuta-paziente, funge da elemento rassicurante che, ripetuto all’interno di un circolo virtuoso, permette gradualmente al paziente di riconquistare spazi di autonomia.
In questi casi la terapia diventa uno spazio di riparativo e, al tempo stesso, di co-costruzione.

 

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Il seminario “la Maladolescenza, nuove forme di malessere in adolescenza”

Il seminario “La maladolescenza. Nuove forme di malessere in adolescenza”, nasce dall’esigenza di confrontarsi sulle nuove evenienze patologiche in adolescenza e le nuove frontiere della cura. Parliamo di nuove frontiere della cura in relazione alla inadeguatezza della categorie psicopatologiche classiche e al bisogno di approcciare nuovi linguaggi e nuovi strumenti terapici. Il rischio è quello dello spaesamento, oppure, di fornire una risposta di cura sorda ai nuovi bisogni e rispondente ad un mondo che non esiste più.

I temi trattati spazieranno dal cambiamento della  funzione paterna e materna. A tale proposito si pensi a come la funzione paterna classicamente intesa nel suo valore normante è oggi fortemente messa in crisi. Allo stesso tempo la funzione materna fa i conti con l’emancipazione del ruolo della donna avvenuta negli ultimi secoli, per cui è da ritenersi superata la fase in cui semplicemente si rincorrevano ideali prettamente maschili in vista del riconoscimento di uguaglianza e parità, verso una realtà che ha a che fare con modelli di vita complessi fondati sul riconoscimento della differenza tra maschile e femminile.

Si parlerà di ritiro sociale come nuova forma del malessere. Il ritiro che di solito si manifesta con un primo sintomo di fobia scolare e mano mano si caratterizza per una chiusura sempre totalizzante.

Dipendenza da internet. L’approfondimento di questo tema permette di guardare all’uso massivo di internet in corrispondenza al ritiro sociale, e quindi alla dipendenza da internet come un sintomo di compromesso, laddove la realtà virtuale diventa una via alternativa attraverso la quale il soggetto si permette di mantenere un vissuto relazionale o di fare esperienze più o meno intense in una forma per lui meno terrifica. A proposito di tale prospettiva si ribalta l’idea di contrastare la dipendenza da internet normando l’uso del computer o creando divieti ma, si utilizza il mondo virtuale come un primo canale di comunicazione con la persona in ritiro.

Il seminario permetterà di entrare nel vivo dell’intervento clinico attraverso il confronto su casi clinici e attraverso una seconda fase in piccolo gruppo.

Il seminario riguarderà la giornata 5 novembre dalle ore 9,00 alle ore 18,00
9,00-11,00
Prima fase di presentazione ospiti e intervento  di Miscioscia.
“Inquadramento teorico su adolescenza, ritiro sociale e intervento con i genitori”

11,00- 11,30 coffe break
11,30 13,00
Confronto su casi clinici
Diego Miscioscia – l’intervento clinico con i ragazzi ritirati
Marie Di blasi- ritiro sociale e dipendenze da internet 
Graziella Zizzo- il lavoro con i genitori e le famiglie all’interno di un ambulatorio pubblico
13,30 pausa pranzo
14,30- 16,30
lavoro in piccolo gruppo
16,30 pausa
17,00 – 18,00
plenaria- restituzione dei lavori in piccoli gruppi
 Diego Miscioscia – psicologo, psicoterapeuta, formatore e socio fondatore della cooperativa il Minotauro
Marie Di Blasi – psicologa, psicoterapeuta, professore associato presso l’Università degli Studi di Palermo
Graziella Zizzo – psicologa, gruppoanalista, psicodrammatista, dirigente psicologo presso N.P.I. ASP di Trapani. Docente presso la scuola di specializzazione Coirag
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soggettivita_-contemporanea-cavaleri-inutile-fatica

Crisi, paradossi e disagi della contemporaneità

Il testo l’inutile fatica,  frutto di un lavoro gruppale, e quindi, concepito in un terreno relazionale, è la testimonianza di una giornata di studio e approfondimento che ha visto coinvolti gli autori sui temi della crisi economica, della precarietà lavorativa e del malessere esistenziale che ne deriva. “Il pretesto”  è l’opera di Ehrenberg “La fatica di essere se stessi”, il cui punto nodale è la constatazione di come la depressione sia diventata una delle patologie più presenti del nostro tempo.
Il testo e il pretesto dai quali si parte ci costringono a fare i conti con le forme del malessere contemporaneo, ci portano a guardare al sintomo nella sua natura gruppale e a dare rilievo al disagio  come formazione sociale. 

Storicizzare la mente, come ci intima Ferrari, è quindi un dovere. Come lo è mettere in crisi i modelli precedenti e fare della clinica una scienza viva che non si esime dal conflitto. Evitare il  conflitto porta invece ad uno sguardo immobile sul malessere, come se la mente fosse una entità separata e impermeabile alle ruvidità delle varie epoche.

La depressione diventa la lente attraverso la quale, in modo sfaccettato, si guarda ai cambiamenti della nostra epoca. Come sottolinea Ferrari tutto ciò che riguarda la psiche non può essere significato nel luogo sterilizzato del laboratorio d’analisi, ma può essere compreso solo se colto nel suo terreno d’origine.

La complessità della questione è specularmente resa dalla complessità degli sguardi che si intrecciano nel testo. L’inutile fatica ci mostra questo tentativo di uscire dal rischio dell’autorefenenzialità, di non scadere in facili ideologismi, di leggere in modo complesso il dato storico e politico attraverso la clinica e il dato clinico attraverso la politica e il sociale.
In questo caso la depressione è sia un dato clinico che un dato politico e sociale. Lo si guarda sia attraverso i paradossi della nostra epoca che attraverso lezioni socratiche all’origine del pensiero occidentale fino ad arrivare alla crisi del materno.

All’inizio del testo ci si ritrova immediatamente immersi in una ricca riflessione sulla fatica dell’essere se stessi nella contemporaneità. La risposta a questa ingiunzione paradossale e a tale mandato sociale è un impoverimento del sé, una fragilità senza pari, che si innesca in un mondo sociale spogliato dalle comunità tradizionalmente aggreganti. Laddove il senso di comunità viene meno e l’ingiunzione predominante è quella della soggettivazione a tutti i costi si fonda l’humus della depressione, della fragilità del sè, del ritiro sociale.
A partire da queste riflessioni Lo piccolo mette in risalto il punto di cambiamento qualitativo nel vissuto depressivo del nostro tempo. Ci invita a guardare a come non sia più caratterizzato dalla colpa ma dal senso di inadeguatezza e dalla pervasiva sensazione di vergogna. Aspetti questi ultimi determinati in modo reattivo alle richieste sempre crescenti del mercato.
Il nucleo patogeno della depressione non è più caratterizzato dalla colpa ma dal deficit. Non ci si confronta più con strutture super egoiche rigide e sadiche ma con un ideale dell’io inarrivabile.
Non ci si volge più verso l’altro ma si rimane intrappolati in una dimensione narcisistica e spietatamente individualista.

In una coralità di voci vediamo consegnarci la grande solitudine relazionale del nostro tempo che appare ritmato da una competizione serrata e da una ricerca, perennemente frustrata, del successo a tutti i costi. E’ nella rifondazione del senso di comunità che si individua un elemento antagonista alla sofferenza del nostro tempo. Si coglie nel testo un invito a guardare alcuni movimenti di resistenza che hanno fatto da controaltare alla solitudine dell’uomo precario, alla gabbia interiore della depressione. In questo passaggio, come ci dice Lo Piccolo, si sottolinea il valore del processo più che dell’obiettivo.
Potremmo parallelamente dire che la comunità cura e, come in psicoterapia, il valore del processo di guarigione si ritrova nell’esperienza relazionale d’ascolto, sintonizzazione emotiva, valorizzazione del sè, rispecchiamento, confronto… Si ritrova già nel “viaggio”.

E’ ciò che ci trasmette Bifo, quando, prendendoci per mano lungo la lama che attraversa il disastro, alla morte del padre frappone la crisi del materno. Se guardiamo al materno in termini simbolici ci rendiamo conto che anche qui l’invito è alla riconnessione di trame, all’acquisizione di nuovi linguaggi, a concepimenti comunitari. E’ l’utero materno che ci consegna alla comunità. L’interiorizzazione del materno diventa allora nuovo terreno gruppale.

Inoltrandosi nella lettura ci si ritrova sospesi sulle macerie della politica. Si affonda lo sguardo in una delle trasformazioni più perverse del nostro tempo determinata dal venire meno della natura “collettiva” e “connettiva” della politica. Potremmo dire che a questo punto, con Cavaleri,  ci ritroviamo a sbattere contro un altro paradosso, quello della “Polis” che non assurge più ad essere luogo di ricerca di soluzioni collettive a drammi individuali ma luogo di competizione dove vige la legge della giungla. Anche la natura connettiva della politica sembra venire meno e in tale scenario frammentato si innesca il paradosso del terzo settore, del “sociale”, dell’essere “buoni”.

E’ nel terzo settore che si mette in rilievo le contraddizioni della contemporaneità. Esattamente in quella area di lavoro che dovrebbe occuparsi del disagio diffuso. Area di mezzo tra pubblico e privato. luogo di sperimentazione di strade alternative. via d’accesso al volontariato, ai tirocini, a forme di “lavoro non retribuito”, ai “Buoni per dirla con Luca Rastello” che perseguono obiettivi salvifici al di là della retribuzione. Proprio perché la mission è nobile e i soldi sono cosa vile, perchè il datore di lavoro è nostro alleato nella missione salvifica e non si può deludere.

E’ in questo scenario che vediamo in modo abbagliante l’azzeramento del conflitto, la fedeltà al capo, la competizione tra pari. Si potrebbe dire che nelle trame smagliate della politica, non più connettiva nè garante del bene comune, si innescano guerre fratricide alimentate dal mercato, non solo nei luoghi dell’impresa pura ma anche lì, nell’area dei buoni, dell’impresa sociale, delle missioni salvifiche.

La depressione allora diventa un dato politico che ci segnala la mancanza di tutele, l’assenza di garanzie, un nuovo paradigma del lavoro che non è più nobilitante ma è l’osso che si tende davanti a un cane affamato. Tra elementi clinici, politici e lavorativi, assurge nel testo la figura di un eroe classico, un eroe spietato e feroce, che nell’inutile fatica compare nel passaggio all’età adulta, quando ancora tutto sembra in divenire.
Compare il fantasma di Alcibiade nel periodo della sua adolescenza. Ruvolo ci porta nell’era classica ad ascoltare una delle più raffinate lezioni socratiche.

Socrate al giovane Alcibiade ammonisce di non frapporre le mete ambiziose della realizzazione del sè al discapito della comunità. Segnala come compito etico di chi governa occuparsi del bene comune non anteponendo il benessere meramente individuale a quello della comunità. Ruvolo trasponendo tale lezione ai nostri tempi rimarca la differenza tra un narcisismo maligno caratterizzato da un sè grandioso alla ricerca di continue conferme, mai nutrienti e mai bastanti…. a un narcisismo buono caratterizzato dalla cura del proprio sè.

Attraverso la possibilità di prendersi cura di se stessi, in modo nutriente e curando le proprie relazioni, diventa  possibile occuparsi/curarsi dell’altro. Solo attraverso questa strada si può restituire alla Polis il proprio spazio etico.

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TRA DESIDERIO E MATERNITÀ

SOSTEGNO PSICOLOGICO ALLA COPPIA CON DIAGNOSI DI INFERTILITÀ

scritto da Josie Bruno

Arriva un momento nella coppia durante il quale si sente il desiderio di concepire un figlio; tale desiderio è legato ad un processo di maturazione che riguarda il singolo e la coppia.

Vi sono alcuni casi in cui tale desiderio viene maturato da un processo disfunzionale, quale per esempio la necessità di portare un elemento di rinforzo ad una coppia fragile o tale scelta si manifesta come una reazione/riparazione a eventi negativi.

In altri casi, l’imperativo biologico e il tempo che passa, sono l’elemento che motiva la coppia alla ricerca dell’esperienza di generare un figlio. Le motivazioni, che fanno nascere nella coppia il desiderio di generare, sono molto importanti nella realizzazione del concepimento, nella gravidanza e nelle proiezioni future sul figlio e diventano maggiormente importanti quando il concepimento non avviene e la coppia riceve diagnosi di infertilità.

Quando il desiderio di concepimento viene disatteso, di solito nella coppia e nell’individuo avviene una frattura che richiede un tempo di elaborazione più o meno lungo. La diagnosi di infertilità diventa una ferita che colpisce l’identità individuale, l’identità di coppia, l’identità sociale.

Ognuno dei due partner si confronta con il fallimento del progetto generativo. All’interno della coppia dopo l’iniziale reazione di shock  ci si trova di fronte a un processo decisionale: proseguire o meno nella ricerca di un figlio, ricorrere alla riproduzione medicalmente assistita o attivare le procedure dell’adozione. Tutto ciò implica, anche in rapporto al confronto con il sociale, una profonda sofferenza emotiva che mette in crisi il sistema di valori, progetti e speranze della coppia e attiva un processo di riassestamento che può durare anche a lungo.

Tale elaborazione è il risultato di un processo molto intenso, caratterizzato da sofferenza, disperazione, rassegnazione, domande senza risposta, vuoti incolmabili.

Si parla di “lutto”, come nella esperienza di lutto, il processo di accettazione passa attraverso sentimenti di rifiuto, isolamento, collera, negazione e depressione.

La difficile elaborazione è conseguenza di una perdita non solo agganciata al reale presente, ma anche alla proiezione di sé nel futuro.

Spesso, infatti, entrano in gioco sentimenti di colpa, incapacità, inadeguatezza, con ripercussioni sulla propria autostima.

In una prima fase di questo percorso, un tema importante è quello dell’attesa, ovvero la capacità di dare a se stessi un tempo per decidere se e come proseguire nel percorso stesso, ma soprattutto la necessità di elaborare la propria sofferenza.

Il primo conflitto da elaborare è quello intrapsichico e riguarda soprattutto la consapevolezza di poter ristrutturare la propria identità oltre il concepimento di un figlio e il ruolo genitoriale.

Il concepimento dell’identità femminile si lega nell’immaginario collettivo alla maternità. La diagnosi di infertilità comporta una revisione dell’immagine di sé e il bisogno di rivalorizzare la propria immagine e la propria femminilità. L’idea di una sessualità fallita, di un corpo rotto, sterile, minaccia la percezione di sé; il corpo che non genera viene vissuto come avverso o minaccioso. Riattivare e rivitalizzare le risorse presenti e ristrutturare l’immagine di sé è un passaggio fondamentale che qualsiasi donna dovrà affrontare prima di decidere se proseguire nel processo di realizzazione del desiderio di diventare madre.

Anche per l’uomo ci sono conseguenze importanti sull’immagine di sé. Quando c’è un desiderio generativo, l’identità maschile viene focalizzata sulla capacità di fecondare; disattendere questa possibilità rappresenta la negazione del pilastro biologico dell’identità sessuale e carica il sé di un senso di inadeguatezza, colpa, vergogna per il mancato concepimento.

Un ulteriore fattore di stress implicato nella decisione di ricorrere alla PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) riguarda la sensazione di essere invasi nella propria sessualità. I vissuti più comuni sono di vergogna e senso di violazione , inoltre, le terapie sono intense e impegnative, a volte, fisicamente estenuanti.

Il lutto della perdita del figlio desiderato implica anche un’altra elaborazione, il fatto che la coppia non basti a se stessa per poter passare dalla diade alla famiglia.

Sotto questa luce il rapporto rischia di essere svilito. La rabbia e i sentimenti di aggressività per questa condizione possono essere proiettati verso il partner e l’inaccettabilità della diagnosi, se non elaborata adeguatamente porta ad allontanarsi.

Il rapporto sessuale viene svuotato della sua dimensione di piacere e desiderio e la dimensione fallimentare prevale dando luogo, spesso, a ulteriori difficoltà comunicative.

Per le coppie è importante riconoscere e accettare di avere un problema; maturare questa consapevolezza significa confrontarsi con il dolore, perché implica l’integrazione di quella parte di sè che non funziona come si vorrebbe senza percepirsi menomati o difettosi.

Spesso infatti sorgono rabbia e invidia nel vedere altre donne con la pancia (invidia del pancione) e la rabbia e la sofferenza spesso si fanno sentire anche quando amici, parenti, conoscenti fanno domande sul perché la coppia non ha ancora un figlio. La condizione di infertilità può dunque attivare comportamenti di fuga dalle relazioni e in alcuni casi l’isolamento familiare e sociale.

Il confronto con il fallimento, magari l’ennesimo, e il rischio di non realizzare il desiderio di genitorialità sono eventi che giustificano la sofferenza e a volte la comparsa di una depressione reattiva.

L’obiettivo di un percorso di psicoterapia e di sostegno psicologico è quindi aiutare la coppia a confrontarsi con questo dolore fornendo loro uno spazio di ascolto.

La terapia permette di creare un campo emotivo sul quale riconnettersi con l’altro rispetto al vissuto di perdita e dolore. A partire da questa nuova possibilità di confronto è possibile elaborare le emozioni dolorose e mobilitare all’interno della coppia risorse di sostegno reciproco. In tal modo diventa possibile nutrire una immagine di sè risanata sia a livello individuale che a livello di coppia. Da tutti questi fattori, in un campo emotivo tutelato dalla terapia, diventano pensabili nuove soluzioni, la terapia assurge a diventare per la coppia uno spazio creativo-rigenerativo.

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I cambiamenti nella mente dell’adolescente

di Cristina Pittari.

La confusione emotiva, l’imprevedibilità, la creatività, l’impulsività che caratterizzano l’adolescenza trovano una spiegazione negli studi neuroscientifici che attestano come nel cervello adolescente avvengano tanti cambiamenti in un arco di tempo breve e che le varie componenti cerebrali si sviluppino secondo velocità differenti.

Il cervello dell’adolescente è un cervello in via di sviluppo, quindi immaturo.
Le aree limbiche cioè quelle regioni del nostro cervello connesse all’impulsività e all’emotività si sviluppano prima di quelle corticali, delle quali la regione frontale è responsabile dell’autoconsapevolezza, dell’inibizione e dell’autoregolazione emotiva.
Studi dimostrano come nei giovani che arrivano alla pubertà la capacità di riconoscimento delle emozioni diminuisce fino al 20%,per poi essere recuperata ai 18 anni d’età.

L’adolescenza è quindi un periodo di trasformazioni e proprio per questo motivo di vulnerabilità.
Il rimodellamento cerebrale che caratterizza questo periodo della vita ne crea le condizioni. Si assiste alla riduzione del numero dei neuroni e delle loro connessioni, il cosidetto fenomeno della potatura, con conseguente eliminazione delle connessioni in eccesso (quelle cioè che non vengono utlizzate); aumentano le connessioni sinaptiche tra i neuroni rimanenti, conseguentemente ad un aumento della mielina, una guaina che ricopre il neurone e che ne permette la comunicazione. Questi cambiamenti sono responsabili del nuovo modo di essere, di pensare, agire dell’adolescente.
L’obiettivo finale di questi cambiamenti è favorire la nascita della capacità di integrazione, cioè di una maggiore specializzazione delle diverse aree cerebrali e di un migliore collegamente tra esse; una efficace connessione tra le aree corticali e sottocorticali cioè tra pensiero logico, razionale ed emotività.
L’ integrazione avviene dentro se e tra se e gli altri.
Proprio a causa di queste trasformazioni cerebrali, una vulnerabilità gia presente nell’infanzia, per cause genetiche o per esperienze vissute( trascuratezze, traumi, abusi), può emergere facilmente in adolescenza.

Negli anni della scuola superiore e dell’università, quindi, possono comparire importanti disturbi mentali come depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. Nei casi in cui l’umore o il pensiero diventino non funzionali per cui l’adolescente non riesce a stare bene con se stesso e con gli altri, bisogna comprendere se si tratta di una condizione temporanea e dovuta alla vivacità di questo periodo o se cela problemi più gravi che richiedono un intervento di tipo psicoterapeutico.
Il lavoro analitico con l’adolescente ha come condizione trasformativa i momenti d’incontro tra paziente e analista, momenti affettivi, in cui il paziente può interiorizzare una diversa qualità delle relazioni rispetto a quelle vissute. Momenti di sintonizzazione affettiva, di vicinanza,in cui sperimentare di “sentirsi sentito” dal proprio analista.

Il senso di appartenenza al gruppo,la possibilità di vivere attaccamenti multipli, la presenza di relazioni in grado di sostenere, la collaborazione tra generazioni, uno stile di attaccamento sicuro e quindi la possibilità di sentirsi amati, protetti, aiutati nei momenti di difficoltà sono ingredienti indispensabili affinchè gli adolescenti possano vivere al meglio questo periodo della loro vita
E’ importante essere consapevoli che alcuni aspetti dell’adolescenza come la ricerca di novità, di senso, la creatività, l’importanza degli altri, le emozioni intense siano da conservare e alimentare anche da adulti perchè senza la vita diventerebbe triste, noiosa, ripetitiva.
E’ proprio per questo che l’approccio agli adolescenti non potrà che valorizzare le componenti positive, la ricerca di nuove soluzioni ai problemi, l’effervescenza emotiva, la vitalità, il carmbiamento, la spinta rivoluzionaria.

 

Bibliografia
Funzione gamma rivista telermatica scienifica dell’Università La Sapienza di Roma

Siegel d.j., La mente adolescente 2013 Raffaello Cortina editore
Siegel D.J., La mente relazionale, 2012 Raffaello Cortina editore

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Sostanze di consumo e post-modernità

Gli imperativi sociali contemporanei tratteggiano una figura antropologica di uomo adattato e integrato nel mondo, una sorta di self-made-man che, se da un lato stimola gli individui a correre rischi a livello personale e professionale, dall’altro non fa altro che aumentare il senso dell’incertezza rispetto ai risultati delle proprie scelte.

Prendere delle scelte, quindi, significa essere esposti potenzialmente ad un rischio da esiti negativi e ad un sentimento di insicurezza derivante proprio dalla probabilità di fallimento. Ciò, di fatto, ha come conseguenza principale quella di rendere gli esseri umani più sensibili a rimedi chimici che permettano loro di far fronte a tutti questi sentimenti percepiti come poco funzionali all’adattamento sociale in un mondo il cui ideale è quello dell’uomo di successo.

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