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La violenza psicologica: aspetti psicologici e clinici nelle relazioni affettive patologiche

Nel complesso fenomeno della violenza alle donne, di cui tentiamo di dare una lettura non solo culturale, ma anche relazionale, emergono diversi quadri patologici.

Quello che segue è una delle combinazioni possibili che vedono l’incontro tra una dimensione fortemente narcisistica da un lato e una incentrata sulla dipendenza dall’altro. L’illustrazione data non esaurisce l’esplorazione di tale fenomeno, ma permette l’analisi di una dinamica frequente, in cui il femminile diventa ricettacolo di aggressività e, nei casi peggiori, di violenza esplicita.

Cosa permette di riconoscere una relazione di coppia disfunzionale? Quale è la dinamica di una coppia in cui uno dei partner tende ad annullare, distruggere, uccidere psichicamente l’altro?

Nella maggior parte dei casi la vittima è una donna, anche se è possibile che si verifichi il contrario, in quanto culturalmente la donna ha avuto da sempre all’interno della coppia il ruolo più sacrificale, colei che deve “sopportare”, deve essere accogliente, compiacente, paziente. Lentamente questo modello culturale si sta modificando ma c’è ancora molto da fare anche a livello sociale per cambiare quanto è radicato dentro, che ci appartiene.

In un periodo storico in cui la famiglia non è più un’ istituzione con legami forti così come in passato, quando funzionava come contenitore emotivo, è importante che altre istituzioni, come quella scolastica, si impegnino in un’ottica di prevenzione per educare all’affettività, per imparare a riconoscere all’interno di un rapporto affettivo, di un rapporto di coppia, quello che è sano da quello che non lo è, quello che viene spacciato per amore ma che invece di amore non ha proprio niente. Il riconoscimento è il primo passo, che sembra scontato ma non lo è. In questo senso la violenza fisica, di cui rimangono i segni sul corpo, non lascia alcun dubbio sulla violenza subita, ma se il partner mette in atto tutta una serie di manipolazioni, insinuazioni, denigrazioni sottili, tutto questo assume una veste di ambiguità che è anche difficile da capire, interpretare. E spesso le donne interpretano, decodificano in modo erroneo alcuni segnali.

Mi chiama in tutti i momenti della giornata, vuole sapere con chi sono, cosa sto facendo … quanto ci tiene a me!” Arrivare a capire che più che attenzione verso l’altro è un bisogno di controllo non è proprio immediato. “Non vuole che esco con la mia amica, che vado in palestra, è molto geloso … quanto mi vuole bene!” Questo non è proprio amore, ma piuttosto possesso dell’altro.

E’ possibile rintracciare dei tratti comuni, delle caratteristiche che è possibile identificare negli uomini che utilizzano nella coppia modalità di prevaricazione, potere, violenza?

Sono degli individui che hanno dei problemi nell’area delle relazioni, cioè persone che funzionano normalmente da un punto di vista cognitivo, lavorativo, ma hanno delle grandi problematiche nelle relazioni e nell’affettività e che in termini tecnici rientrano nei Disturbi di personalità, soprattutto nell’area del Narcisismo.

Come si comporta il Narcisista quando conosce una donna che diventerà una sua “preda”, quali sono i possibili passaggi relazionali di questa coppia?

Nella fase iniziale solitamente il Narcisista è un grande seduttore; queste storie spesso nascono all’insegna dei grandi corteggiamenti, grandi adulazioni, attivando un grande coinvolgimento del partner che si sente da subito molto coinvolto e ha la sensazione di vivere il rapporto più importante della vita. Il narcisista riesce così a instillare l’idea che lui solo sa che cosa l’altro veramente vuole, di che cosa ha veramente bisogno. Lei lo lascia fare, magari si sente lusingata: nessuno l’ha mai capita così. Il narcisista costruisce la sua tela, lentamente, non svelandosi immediatamente per quello che è, ma cercando di portare la sua preda ad uno stato totale di sudditanza psicologica. E’ ben accorto dallo svelarsi immediatamente, lo fa quando si rende conto che l’altro ormai è totalmente dentro la relazione.

La dinamica perversa ha lentamente e impercettibilmente eroso e disorientato il senso critico della «vittima»e il vero e proprio maltrattamento comincia a manifestarsi proprio quando la «vittima» non è in grado di riconoscerlo. La perdita della capacità di fare un sicuro esame della realtà è, infatti, una delle conseguenze della relazione con un narcisista perverso: una delle più dolorose.

Narciso è un uomo che vuole specchiarsi nello stagno e guardare la propria immagine riflessa, cioè l’altro deve rimandare la sua immagine. L’altro non esiste come entità a sé stante, ma serve soltanto a rimandare la sua immagine. Per il narcisista gli altri sono vissuti come persone che non hanno un’esistenza o dei bisogni propri e la difficoltà a stare in relazione si manifesta nell’incapacità di provare sia gratitudine che rimorso o senso di colpa, che è sempre dell’altro, nell’incapacità di ringraziare e di chiedere scusa.

E’ importante chiarire che non tutti i narcisisti agiscono la violenza psicologica. L’elemento che determina la violenza oltre al narcisismo è l’aspetto della perversione. Il perverso, nell’usare l’altro, implicitamente lo disprezza, lo sminuisce in quanto ha bisogno di trasformare la relazione in rapporto di forza e di potere.

Lo scopo del narcisista perverso è quello di controllare l’altro, ma non soltanto di fargli mettere in atto un certo tipo di comportamenti, ma ancor più di controllarlo dall’interno, di cambiare il suo pensiero, il suo modo di essere. La relazione con un partner narciso è una relazione di potere, dove non c’è reciprocità, perché l’altro non è visto nella sua identità, riconosciuto per quello che è, ma soltanto per quello che gli serve cioè dare conferma della sua identità. Quello che accomuna tutti i narcisi descritti è la totale mancanza di empatia, di sentire le emozioni che l’altro prova, di sentire e riconoscere i suoi bisogni più profondi. Il narcisista tratta l’altro come un oggetto, come una cosa da possedere. Può mettere in atto meccanismi di controllo, cercherà di limitare il tempo che la partner trascorre in modo autonomo, l’altro alla fine deve fare e essere come lui vuole.

Quali sono i passaggi successivi all’interno di questo tipo di relazione? In che cosa consiste la Violenza Psicologica?

Le denigrazioni, le critiche sono spesso dirette alle idee del partner, alle sue scelte, al suo pensiero, e mettono in dubbio le sue capacità critiche. Tutto questo avviene talvolta in modo ambiguo, dicendo una cosa e poi negando di averla detta, alludendo ma non dicendo chiaramente, per cui per il partner è più difficile difendersi da qualcosa che non risulta esplicito, diretto. E quando la donna cerca di reagire, si sente accusare di essere troppo sensibile, di non essere sicura di sè. Non può parlarne, non sa come affrontare il problema: lui banalizza, infatti, ogni tentativo che lei fa di parlare di ciò che avviene nella relazione, squalificandola. Così lei tace, e in questo modo finisce per isolare sé stessa e proteggere lui. Poi gli attacchi si moltiplicano, si passa alla derisione, agli insulti, alle minacce. La donna comincia a pensare, anche perché è questo che lui le suggerisce, di essere lei quella sbagliata, quella che non capisce, e cerca di adeguarsi alla situazione, di farvi fronte in qualche modo. E siccome alla base c’è un sentimento di poco valore, nel momento in cui l’altro va a confermare questo sentimento interno di non valore, la donna se lo prende e si colpevolizza, si attribuisce la responsabilità di ciò che non va all’interno della relazione. Come dire, se il mio partner è così aggressivo nei miei confronti è perché io ho fatto qualcosa di sbagliato.

Entrambi i partner hanno lo stesso problema alla base, sentire di valere poco, ma il Narcisista lo nega, non lo riconosce, ha però bisogno dell’altro per mantenere alto il senso di sé, per non sentire il suo vuoto interiore. La dinamica allora si incastra perfettamente, perché se da un lato c’è qualcuno che si colpevolizza, dall’altro invece c’è un altro che non si attribuisce mai la colpa ma che al contrario la riversa all’esterno da sé, sul partner, sui familiari, sul mondo intero.

A un certo punto accade qualcosa che lei non avrebbe mai pensato di poter sopportare: lui, ad esempio, la offende davanti agli altri, oppure la minaccia, oppure spacca davanti a lei oggetti a cui lei tiene… e lei si rende conto, diversamente da come aveva pensato prima, di potere sopportare. Il limite è ormai spostato, e lei potrà sopportare ancora e ancora… Gli uomini provano, dopo questi episodi, calma, calo di tensione, come il «ripristino di una Gestalt interiore», uno strano stato di tranquillità.

Il passo successivo è l’isolamento: la donna nasconde all’esterno ciò che realmente accade fra loro, fino ad un certo punto anche a se stessa, finendo con il proteggere il partner che la maltratta. L’isolamento, per il maltrattante, è fondamentale perché lo scopo è quello di far si che la donna perda tutta la rete di relazioni affettive (familiari, amicali, terapeutiche) con l’obiettivo di poter continuare a perpetuare la sua azione di distruzione e di esercizio del potere in modo indisturbato. Come fa? Insinuando e mettendo zizzanie, alimentando i conflitti, screditando la partner o gli altri, a seconda di ciò che è più facile.

Il rendersi conto del maltrattamento, oltre che molto difficile sul piano cognitivo, è altrettanto difficile e doloroso su quello emotivo perchè significherebbe ammettere che il rapporto di coppia, quel rapporto che sembrava così importante, è fallito, che lui non è quello che lei aveva pensato che fosse. Anche perché il perverso relazionale non manca completamente di empatia, ma l’empatia, quando è presente, è totalmente asservita alla strategia controllante-premurosa/punitiva.

La donna adesso ha paura. Teme il rimprovero, la battuta sarcastica, la minaccia espressa a bassa voce e in tono cupo, oppure gridata durante un’esplosione di collera. Fa di tutto per rabbonire il compagno, ogni suo sforzo va in questa direzione. Farebbe qualunque cosa pur di strappargli un sorriso, un cenno di assenso, un’approvazione. Mette in atto delle strategie “preventive” per evitare le sue reazioni.

Tutti questi comportamenti, ripetuti quotidianamente nel tempo, producono nel partner una vera e propria sindrome, con disturbi psicosomatici, ansia,attacchi di panico, stati depressivi, perdita dell’autostima, che quindi vanno chiaramente ad incidere anche nelle attività lavorative e possono portare in casi estremi anche al suicidio. Queste modalità di violenza psicologica uccidono la psiche anche per la loro azione ripetuta nel tempo perché quello che poi spesso caratterizza queste relazioni è anche la difficoltà ad uscirne, con ripetuti tentativi di chiudere il rapporto, e in cui subentra un aspetto fondamentale che è quello della dipendenza che poi è una dipendenza reciproca, agita in modo diverso dai due partner nella dinamica relazionale. In tutti i rapporti affettivi c’è una quota di dipendenza che a che fare con il legame, con l’importanza che l’altro riveste nella propria vita. In questi casi però la relazione porta all’annullamento di sé e al vivere in funzione dell’altro. Si parla oggi di nuove dipendenze, cioè di dipendenze in cui si ha un rapporto con l’altro come il tossicodipendente ha un rapporto con la sostanza. E questi sono dei rapporti in cui ognuno dei due è funzionale all’altro, cioè la dipendenza è reciproca.

E’ possibile tracciare un profilo delle donne che creano questo tipo di rapporti? E’ possibile rintracciare dei tratti e dei meccanismi generali e più frequenti, non è detto che tutte le donne rientrino necessariamente in queste tipologie.

1 La salvatrice. L’illusione dell’ Io ti cambierò

2 La donna in grado di sopportare tutto

3 La donna che cerca di esistere attraverso l’altro

Sono rapporti in cui si vive l’illusione di un rapporto che adesso non è come lo si vorrebbe ma si aspetta, si attende che succeda qualcosa nel futuro “Oggi non l’ha capito ma domani cambierà”Oggi non ha lasciato sua moglie ma domani lo farà” “Io riuscirò a farlo cambiare”. Perché la questione alla fine è anche quella. Alla base c’è un problema di bassa autostima, cioè di una falla nel senso di sè, nella propria sicurezza, e quindi il tentativo è quello di provare a dimostrare di valere, di essere scelte o di riuscire a modificare un’altra persona. In una partita che però è persa in partenza. E tutto questo ad un livello di profondo serve a riprodurre nella relazione attuale una dinamica che ha a che fare con un’altra relazione, ovvero quella più antica quella con uno dei genitori. E’ fondamentale infatti per la donna guardare a quegli aspetti di fragilità che hanno portato a vivere queste storie perché altrimenti il rischio è di passare da un partner abusante all’altro, perché bisogna fare i conti anche con il vuoto che queste storie per quanto distruttive riempiono perché a monte c’è un buco individuale profondo che si ripropone quando il rapporto si interrompe. Sganciarsi da queste dinamiche, vuol dire da un punto di vista psichico morire due volte, la prima all’interno della relazione, la seconda uccidendo quella parte di sé fragile, immatura, bambina, dipendente, che ha avuto bisogno di quel rapporto per trovare un riconoscimento di sé, ovviamente in modo patologico.

Filippini S.: Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia. Franco Angeli, 2005
Hirigoyen M.F. : Molestie Morali, Einaudi, 1998
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Il corpo celato. Riflessioni cliniche sui ragazzi ritirati

Erika Hopper

Erika Hopper

Scritto da Roberta Campo

Era il 2000 quando uscì “Thomas in Love”, un film che affronta la storia di un ragazzo di 32 anni terrorizzato dal mondo e dalla possibilità di entrare in contatto con le persone che vi abitano. Thomas, quindi, sceglie di ripiegare nel mondo protetto della sua casa, intrattenendo relazioni esclusivamente di carattere virtuale. Nel film non c’è mai la possibilità di scrutare o intravedere il volto di Thomas: per certi versi è come se il regista Pierre Paul Renders avesse colto un aspetto centrale della psicopatologia della postmodernità, caratterizzata dall’uso del corpo (manipolato, celato, aggredito) come mezzo per esprimere il proprio disagio. Nel caso di Thomas, così come per tanti ragazzi ritirati socialmente che soffrono nascondendosi nella propria stanza e rifugiandosi in un mondo popolato da un immaginario incomprensibile ai più, il corpo deve essere sottratto al contatto, al tatto, alla relazione. Il corpo è un traditore perché svela emozioni che vorrebbero rimanessero nascoste e diventa fonte di vergogna.

L’adolescenza di oggi è la risultante di diversi fattori familiari, politico-economici e culturali che la tratteggiano in maniera completamente diversa da quella che abbiamo visto descritta in film come “Breakfast club” o “L’attimo fuggente”.

Per comprendere meglio come è cambiata l’adolescenza ma anche e soprattutto il modo in cui oggi si esprime il disagio è necessario interrogarsi e comprendere il modo in cui i fattori culturali hanno delle ricadute sui processi di soggettivizzazione.

“Vittima” di questa cultura narcisistica è la famiglia che sempre più si interroga sulle caratteristiche che dovrebbe avere un buon genitore, impegnata nell’elaborazione di modalità comunicative e simboliche più consone alla realizzazione della figura del genitore amato e amabile sempre e comunque. Accoglienza e protezione sembrano essere le parole d’ordine della nuova famiglia: tutto è pensato per aiutare il figlio a divenire poliedrico e adattarsi a qualsiasi contesto, per sostenerlo a coltivare la propria indole e attitudine, per fargli esprimere al meglio le proprie potenzialità (rischiando di alimentare a volte il senso di onnipotenza e di affermazione di se oltre ogni limite). La relazione empatica garantisce il legame e permette di portare avanti il progetto educativo.
Le famiglie affettive, liquide, viscose, nella propria quotidianità, come ci descrive perfettamente Ammaniti (2015), mettono in scena delle pratiche apparentemente innocue, mascheratamente paritarie che spesso creano confusione e annullano le differenze generazionali, creando spesso sofferenza quando non un vero stallo educativo. Al contrario, nel loro percorso di crescita, gli adolescenti hanno bisogno delle differenze in quanto queste sostengono il percorso evolutivo e danno senso alla relazione e al legame.
Spesso il genitore veste i panni del giovane, invadendo il campo generazionale identificatorio dell’adolescente, si propone agli occhi del figlio come prestante, alla moda, eternamente complice, anche se in realtà, quando si racconta all’interno di una relazione terapeutica, egli ci parla di una propria difficoltà narcisistica ad accettare i propri limiti e mancanze; la competizione con il corpo giovane del figlio sembrerebbe volere scotomizzare la paura del proprio decadimento legato al passar degli anni.

Oggi, in realtà, siamo in presenza di una vera e propria emergenza pedagogica, i genitori si confrontano con domande semplicemente impensabili dai loro genitori e si chiedono costantemente quali possano essere le modalità educative più adeguate per sostenere il proprio figlio nella crescita. E le risposte a queste domande vanno trovate velocemente, perché una nuova emergenza è lì pronta a prendere il posto della precedente. Non ci si finisce di chiedere quante ore dovrebbe passare il proprio figlio davanti al pc che sorge la nuova domanda sull’età per accordarsi con i figli rispetto al possesso dello smartphone. Le domande che si fanno i genitori oggi sono tante e molteplici; sempre più spesso assistiamo a genitori preoccupati o in difficoltà nello stabilire i criteri per stabilire il limen tra normalità e patologia. Esce troppo o troppo poco? Il numero di amici è sufficiente? A cosa addebitare il suo silenzio relativo alla sfera affettiva e sentimentale?
Consapevoli che spesso il disagio è muto fino a quando non lo vedono esplodere fantasticano di spiare il figlio sul confine intimo e segreto della sua stanza.
È chiaro che, spesso, dietro tutte queste domande si cela il fantasma del ritiro sociale, isolamento, depressione.

Esposto alla pressione del mostrarsi buono e competente non è solo il genitore ma anche il giovane impegnato nella definizione della propria identità.
La società postmoderna, infatti, è caratterizzata dalla ricerca vorace e frenetica di oggetti, il cui possesso viene rappresentato dall’individuo come motivo di realizzazione personale e di completezza, unico modo per realizzare (illusoriamente) il proprio ideale dell’IO. Gli oggetti permetterebbero per certi versi di reggere le aspettative di fascino e bellezza, di essere iperprestanti ed efficienti. All’interno di un modo sempre in connessione, il nuovo mandato sociale è quello di essere sempre vigile, attento e pronto. Se da in lato però questa connessione costante è impossibile da reggere, dall’altro sembra altrettanto impossibile sottrarvisi, se da un lato permette di nascondere e camuffare a piacere il “vero Se”, dall’altro ci espone ad una continua assenza di privacy. L’uso dei social e di tutti i nuovi strumenti di comunicazione comporta una “socialità allargata” dove tutti potenzialmente possiamo essere in contatto con tutti. Per i “nativi digitali” ciò sicuramente comporta un nuovo modo di “sentirsi parte” , rappresenta un nuovo modo di condivisione e di tessitura di relazioni significative. Ma se per qualcuno l’uso di tali tecnologie è abbastanza integrato e connesso funzionalmente con il perseguimento dei compiti evolutivi, per altri adolescenti il computer e internet diventano u n modo per sottrarsi al mondo, scegliendo la vita al di la dello schermo.
Non dovrebbe per niente sorprendere, quindi, che il malessere oggi possa prendere la forma dell’isolamento e del ritiro, in quanto questa soluzione, per quanto estrema, permette al soggetto di evitare il confronto con la realizzazione di ideali sociali e familiari irraggiungibili e contemporaneamente consente al ragazzo un riparo in attesa che le acque si calmino e ove può riprendere il respiro ed elaborare con calma strategie evolutive più convincenti.

All’interno della nostra pratica clinica quotidiana non ci troviamo più ad ascoltare adolescenti che si sentono soverchiati dal senso di colpa e della paura della reazione dei propri genitori laddove scoperti per qualche trasgressione; al contrario ci troviamo davanti ad adolescenti che soffrono di una emorragia del proprio valore narcisistico. Gli adolescenti di oggi ci parlano, in contrapposizione agli ideali proposti dalla società, della loro paura di non farcela, di non essere all’altezza delle aspettative, di non essere adeguati, di non essere in grado di sostenere la competizione sociale.

“Se un tempo c’era il problema di dover reprimere i propri desideri per adattarsi a nuovi ruoli sociali ora i nostri giovano hanno a che fare con un ideale dell’io che impone di manifestare i propri desideri, non preparando questi ragazzi allo scontro con la realtà e i suoi limiti. Il sentimento che nasce da questo shock è la vergogna che è difficile da debellare, costringendo quindi il soggetto ad annullarsi completamente. Sono ragazzi che desiderano scomparire ossia sottrarsi allo sguardo inquisitore dell’altro, che diventa intollerabile” (Lupi, Zavarisi, 2014, pag.77)

I ragazzi che oggi sembrano essere insensibili a qualsiasi richiamo d’autorità sono gli stessi che sono pronti a “crollare” al minimo insuccesso personale. Una caratteristica che ci parla di una fragilità narcisistica, che vede l’adolescente votato ad una maggiore libertà ma contemporaneamente esposto alla perdita e alla frustrazione. Nel corso della crescita hanno interiorizzano un mandato genitoriale che li vuole protagonisti di un “Piano Grandioso”, destinato prima o poi alla prova di di realtà.
Nella cultura iperprestazionale, come ci ricorda Preciado (2015), il modello normativo è quello visivo: non sembra essere un caso, infatti, che in una società in cui l’ostentazione del corpo, la ricerca di visibilità, l’ideale performante e performativo la fanno da padrone, l’adolescente scelga il proprio corpo quale teatro per esprimere il dolore mentale relativo alla crescita.
Charmet lo descrive bene

“il corpo dell’adolescente è spesso luogo di espressione della sofferenza e strumento di comunicazione di conflitti mentali profondi” (Charmet 2004).

Gli adolescenti devono imparare a pensare il proprio corpo ma spesso quest’ultimo diventa un vero e proprio persecutore fonte di angoscia; il corpo infatti quando viene vissuto come un traditore prende le sembianze di un persecutore.
La crescita impone un cambio di specchio sociale: cambiano gli interlocutori dai quali ci si aspetta approvazione e riconoscimento e questi nuovi interlocutori non hanno sempre il volto protettivo e caloroso dei genitori. I vestiti, l’abbigliamento, le mode sono la cartina tornasole per capire a che punto sono gli adolescenti rispetto al proprio percorso di crescita; tramite l’accesso ad un codice comune e condiviso dalla stessa generazione, gli adolescenti fanno capire ai pari-età quanto si sono spinti oltre nel processo di mentalizzazione del corpo e della propria sessualità.
I ragazzi di oggi entrano nella fase puberale pieni di aspettative positive e a volte grandiose, con una rappresentazione più o meno nitida di quello che accadrà; ne ha parlato coi genitori, con gli insegnanti, ha ascoltato programmi in tv che esplicitamente parlano di una sfera che per anni è rimasta a gestione privata; in questo scenario nessuno si è spesso occupato realmente di sostenere l’esperienza emozionale relativa alla crescita. E così, quando al momento del debutto sociale le cose non vanno per come si era immaginato, gli adolescenti possono cadere nelle soluzioni chirurgiche o chimiche offerte dalla stessa società che ne origina la sofferenza (dipendenze, anoressia, ritiro sociale…).
Il ragazzo ritirato vuole sottrarsi allo sguardo reale dell’altro proprio come Thomas. Spesso sono convinti di non avere nulla da dare, soffrono per qualsiasi imperfezione possono rintracciare nell’immagine di sé e tale “bruttezza” viene isolata nel corpo facendo del corpo un vero e proprio persecutore. L’adolescente fa in effetti fatica a mentalizzare in questi casi le trasformazioni puberali che rendono il corpo goffo, impacciato e a volte anche un pò sgraziato.

Il corpo che con l’avvento della pubertà aveva promesso felicità, prestanza, potenza, forza, tradisce perché sede delle manifestazioni umorali che mettono a nudo la propria fragilità.
Il rapporto con l’altro è vissuto come doloroso, in quanto ci si espone al giudizio e alla paura di essere isolati e rifiutati. Il giovane che sperimenta il vissuto di inadeguatezza e di non essere all’altezza è spesso destinato ad essere preso in ostaggio della vergogna. Questa ha sicuramente un potenziale dirompente con conseguente sensazione di sfaldamento dei confini identitari. I ragazzi ritirati desiderano sottrarre il corpo, quel corpo che si vergogna e che tradisce alla vista dell’altro, non senza un vissuto di perdita. I ragazzi, infatti, desidererebbero avere relazioni di amicizia e sentimentali, ma ne rifuggono accuratamente in quanto l’altro potrebbe rifiutare e assumere la maschera di quel giudice dal quale tanto acrobaticamente rifugge.

In scacco vi è il compito evolutivo inerente la mentalizzazione del proprio corpo sessuato, complementare mortale, e virile (la maggior parte dei ragazzi ritirati sono di sesso maschile). Conseguentemente, nella scelta di isolarsi e di sottrarsi allo sguardo altrui si può rintracciare il tentativo di fermare il tempo e posticipare a data da destinarsi il proprio debutto sociale, nell’attesa di fare ordine e di imparare il “come si fa”.

Bibliografia
– Ammaniti M. (2015), La famiglia adolescente, La Terza, Bari.
– Lupi A.,Zavarise G. (2014), La rappresentazione del Sè, dell’oggetto genitoriale e d’amore, in Cooperativa Minotauro (2014). La bruttezza immaginaria – Intervento clinico con ragazzi ritirati. Attidell’evento culturale tenutosi a Milano il 9 e 10 maggio2014.
– Maggiolini A., Charmet G.P. (2004) (a cura di), Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano.
http://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/Generalistic-images/Documenti/ricerca.pdf
– Preciado P. B. (20015), Testo tossico, Fandango Libri, Roma.

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