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Psicoterapia domiciliare con adolescenti in ritiro sociale

Tra i servizi elaborati all’interno del centro clinico koinè si annovera quello della psicoterapia domiciliare con adolescenti in ritiro sociale.

Nel trattamento di adolescenti in ritiro sociale uno strumento elettivo, a completamento di un intervento più complesso, è caratterizzato dall’intervento domiciliare.
Il quadro in cui si inserisce è riferito ad una presa in carico complessa dove parte del lavoro viene sviluppato con i genitori in studio e parte con l’adolescente in domiciliare.
Tale organizzazione del lavoro è pianificata nel momento in cui lo stato di chiusura del ritirato è tale da non permettere un intervento diretto con l’adolescente all’interno dello studio.

Da un lato il lavoro con i genitori è finalizzato ad accogliere la prima richiesta d’aiuto, dei quali loro sono i portavoce, ad aiutarli a fronteggiare la difficoltà ad avere a che fare con la sofferenza e la chiusura del figlio, a riformulare il loro ruolo e a trovare nuovi canali di comunicazione col proprio figlio. Tutto ciò passa attraverso la possibilità di generare una comprensione profonda delle problematiche che hanno portato al blocco evolutivo.

La famiglia, laddove è possibile ed è funzionale al lavoro, viene coinvolta e ascoltata nella sua interezza, genitori, fratelli, nonni. I nonni, quando ci sono e offrono la loro disponibilità, rapresentano una buona risorsa sia perché depositari di storie generazionali più antiche, spesso pregne di miti familiari, sia perché, talvolta, a cospetto del giovane paziente forniscono una presenza meno satura da livelli conflittuali che solitamente attraversano il rapporto genitori figli.

L’intervento familiare viene modulato di volta in volta, dopo aver valutato risorse e difficoltà, e pur coinvolgendo inizialmente la famiglia allargata mantiene come interlocutori privilegiati i genitori e il figlio che esprime il malessere.
L’obiettivo è quello di agire sul clima familiare, allentare la tensione, creare nuovi canali di comunicazione e aiutare il ragazzo, portatore del malessere, a uscire lentamente dall’isolamento in cui sembra recluso.

Psicoterapia domiciliare
Il terapeuta si muove verso il paziente, nel significato letterale del termine, andando verso i suoi luoghi che, al momento del ritiro, sono inizialmente rappresentati dallo spazio ristretto della propria stanza e da quello virtuale a cui ci si affaccia attraverso il monitor. In prospettiva il terapeuta domiciliare prova ad entrare nei luoghi fisici e virtuali del ragazzo in modo discreto e modulato rispetto al bisogno del soggetto di avere delle presenze esterne e rispettandone al contempo il timore di essere invaso.
Lo spazio terapeutico si muove flessibilmente sul filo che separa desiderio e timore, prova a diventare timoniere di nuove rotte verso l’esterno in una gradualità che tenga conto della fragilità dell’utente e del suo bisogno di rassicurazione, di punti di appiglio, di lentezza.

Il terapeuta prova a diventare gradulamente connettore di nuove possibilità di inserimento, facilitatore di nuove capacità e abilità sociali.
Il riattraversamento insieme, terapeuta-paziente, funge da elemento rassicurante che, ripetuto all’interno di un circolo virtuoso, permette gradualmente al paziente di riconquistare spazi di autonomia.
In questi casi la terapia diventa uno spazio di riparativo e, al tempo stesso, di co-costruzione.

 

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Il corpo celato. Riflessioni cliniche sui ragazzi ritirati

Erika Hopper

Erika Hopper

Scritto da Roberta Campo

Era il 2000 quando uscì “Thomas in Love”, un film che affronta la storia di un ragazzo di 32 anni terrorizzato dal mondo e dalla possibilità di entrare in contatto con le persone che vi abitano. Thomas, quindi, sceglie di ripiegare nel mondo protetto della sua casa, intrattenendo relazioni esclusivamente di carattere virtuale. Nel film non c’è mai la possibilità di scrutare o intravedere il volto di Thomas: per certi versi è come se il regista Pierre Paul Renders avesse colto un aspetto centrale della psicopatologia della postmodernità, caratterizzata dall’uso del corpo (manipolato, celato, aggredito) come mezzo per esprimere il proprio disagio. Nel caso di Thomas, così come per tanti ragazzi ritirati socialmente che soffrono nascondendosi nella propria stanza e rifugiandosi in un mondo popolato da un immaginario incomprensibile ai più, il corpo deve essere sottratto al contatto, al tatto, alla relazione. Il corpo è un traditore perché svela emozioni che vorrebbero rimanessero nascoste e diventa fonte di vergogna.

L’adolescenza di oggi è la risultante di diversi fattori familiari, politico-economici e culturali che la tratteggiano in maniera completamente diversa da quella che abbiamo visto descritta in film come “Breakfast club” o “L’attimo fuggente”.

Per comprendere meglio come è cambiata l’adolescenza ma anche e soprattutto il modo in cui oggi si esprime il disagio è necessario interrogarsi e comprendere il modo in cui i fattori culturali hanno delle ricadute sui processi di soggettivizzazione.

“Vittima” di questa cultura narcisistica è la famiglia che sempre più si interroga sulle caratteristiche che dovrebbe avere un buon genitore, impegnata nell’elaborazione di modalità comunicative e simboliche più consone alla realizzazione della figura del genitore amato e amabile sempre e comunque. Accoglienza e protezione sembrano essere le parole d’ordine della nuova famiglia: tutto è pensato per aiutare il figlio a divenire poliedrico e adattarsi a qualsiasi contesto, per sostenerlo a coltivare la propria indole e attitudine, per fargli esprimere al meglio le proprie potenzialità (rischiando di alimentare a volte il senso di onnipotenza e di affermazione di se oltre ogni limite). La relazione empatica garantisce il legame e permette di portare avanti il progetto educativo.
Le famiglie affettive, liquide, viscose, nella propria quotidianità, come ci descrive perfettamente Ammaniti (2015), mettono in scena delle pratiche apparentemente innocue, mascheratamente paritarie che spesso creano confusione e annullano le differenze generazionali, creando spesso sofferenza quando non un vero stallo educativo. Al contrario, nel loro percorso di crescita, gli adolescenti hanno bisogno delle differenze in quanto queste sostengono il percorso evolutivo e danno senso alla relazione e al legame.
Spesso il genitore veste i panni del giovane, invadendo il campo generazionale identificatorio dell’adolescente, si propone agli occhi del figlio come prestante, alla moda, eternamente complice, anche se in realtà, quando si racconta all’interno di una relazione terapeutica, egli ci parla di una propria difficoltà narcisistica ad accettare i propri limiti e mancanze; la competizione con il corpo giovane del figlio sembrerebbe volere scotomizzare la paura del proprio decadimento legato al passar degli anni.

Oggi, in realtà, siamo in presenza di una vera e propria emergenza pedagogica, i genitori si confrontano con domande semplicemente impensabili dai loro genitori e si chiedono costantemente quali possano essere le modalità educative più adeguate per sostenere il proprio figlio nella crescita. E le risposte a queste domande vanno trovate velocemente, perché una nuova emergenza è lì pronta a prendere il posto della precedente. Non ci si finisce di chiedere quante ore dovrebbe passare il proprio figlio davanti al pc che sorge la nuova domanda sull’età per accordarsi con i figli rispetto al possesso dello smartphone. Le domande che si fanno i genitori oggi sono tante e molteplici; sempre più spesso assistiamo a genitori preoccupati o in difficoltà nello stabilire i criteri per stabilire il limen tra normalità e patologia. Esce troppo o troppo poco? Il numero di amici è sufficiente? A cosa addebitare il suo silenzio relativo alla sfera affettiva e sentimentale?
Consapevoli che spesso il disagio è muto fino a quando non lo vedono esplodere fantasticano di spiare il figlio sul confine intimo e segreto della sua stanza.
È chiaro che, spesso, dietro tutte queste domande si cela il fantasma del ritiro sociale, isolamento, depressione.

Esposto alla pressione del mostrarsi buono e competente non è solo il genitore ma anche il giovane impegnato nella definizione della propria identità.
La società postmoderna, infatti, è caratterizzata dalla ricerca vorace e frenetica di oggetti, il cui possesso viene rappresentato dall’individuo come motivo di realizzazione personale e di completezza, unico modo per realizzare (illusoriamente) il proprio ideale dell’IO. Gli oggetti permetterebbero per certi versi di reggere le aspettative di fascino e bellezza, di essere iperprestanti ed efficienti. All’interno di un modo sempre in connessione, il nuovo mandato sociale è quello di essere sempre vigile, attento e pronto. Se da in lato però questa connessione costante è impossibile da reggere, dall’altro sembra altrettanto impossibile sottrarvisi, se da un lato permette di nascondere e camuffare a piacere il “vero Se”, dall’altro ci espone ad una continua assenza di privacy. L’uso dei social e di tutti i nuovi strumenti di comunicazione comporta una “socialità allargata” dove tutti potenzialmente possiamo essere in contatto con tutti. Per i “nativi digitali” ciò sicuramente comporta un nuovo modo di “sentirsi parte” , rappresenta un nuovo modo di condivisione e di tessitura di relazioni significative. Ma se per qualcuno l’uso di tali tecnologie è abbastanza integrato e connesso funzionalmente con il perseguimento dei compiti evolutivi, per altri adolescenti il computer e internet diventano u n modo per sottrarsi al mondo, scegliendo la vita al di la dello schermo.
Non dovrebbe per niente sorprendere, quindi, che il malessere oggi possa prendere la forma dell’isolamento e del ritiro, in quanto questa soluzione, per quanto estrema, permette al soggetto di evitare il confronto con la realizzazione di ideali sociali e familiari irraggiungibili e contemporaneamente consente al ragazzo un riparo in attesa che le acque si calmino e ove può riprendere il respiro ed elaborare con calma strategie evolutive più convincenti.

All’interno della nostra pratica clinica quotidiana non ci troviamo più ad ascoltare adolescenti che si sentono soverchiati dal senso di colpa e della paura della reazione dei propri genitori laddove scoperti per qualche trasgressione; al contrario ci troviamo davanti ad adolescenti che soffrono di una emorragia del proprio valore narcisistico. Gli adolescenti di oggi ci parlano, in contrapposizione agli ideali proposti dalla società, della loro paura di non farcela, di non essere all’altezza delle aspettative, di non essere adeguati, di non essere in grado di sostenere la competizione sociale.

“Se un tempo c’era il problema di dover reprimere i propri desideri per adattarsi a nuovi ruoli sociali ora i nostri giovano hanno a che fare con un ideale dell’io che impone di manifestare i propri desideri, non preparando questi ragazzi allo scontro con la realtà e i suoi limiti. Il sentimento che nasce da questo shock è la vergogna che è difficile da debellare, costringendo quindi il soggetto ad annullarsi completamente. Sono ragazzi che desiderano scomparire ossia sottrarsi allo sguardo inquisitore dell’altro, che diventa intollerabile” (Lupi, Zavarisi, 2014, pag.77)

I ragazzi che oggi sembrano essere insensibili a qualsiasi richiamo d’autorità sono gli stessi che sono pronti a “crollare” al minimo insuccesso personale. Una caratteristica che ci parla di una fragilità narcisistica, che vede l’adolescente votato ad una maggiore libertà ma contemporaneamente esposto alla perdita e alla frustrazione. Nel corso della crescita hanno interiorizzano un mandato genitoriale che li vuole protagonisti di un “Piano Grandioso”, destinato prima o poi alla prova di di realtà.
Nella cultura iperprestazionale, come ci ricorda Preciado (2015), il modello normativo è quello visivo: non sembra essere un caso, infatti, che in una società in cui l’ostentazione del corpo, la ricerca di visibilità, l’ideale performante e performativo la fanno da padrone, l’adolescente scelga il proprio corpo quale teatro per esprimere il dolore mentale relativo alla crescita.
Charmet lo descrive bene

“il corpo dell’adolescente è spesso luogo di espressione della sofferenza e strumento di comunicazione di conflitti mentali profondi” (Charmet 2004).

Gli adolescenti devono imparare a pensare il proprio corpo ma spesso quest’ultimo diventa un vero e proprio persecutore fonte di angoscia; il corpo infatti quando viene vissuto come un traditore prende le sembianze di un persecutore.
La crescita impone un cambio di specchio sociale: cambiano gli interlocutori dai quali ci si aspetta approvazione e riconoscimento e questi nuovi interlocutori non hanno sempre il volto protettivo e caloroso dei genitori. I vestiti, l’abbigliamento, le mode sono la cartina tornasole per capire a che punto sono gli adolescenti rispetto al proprio percorso di crescita; tramite l’accesso ad un codice comune e condiviso dalla stessa generazione, gli adolescenti fanno capire ai pari-età quanto si sono spinti oltre nel processo di mentalizzazione del corpo e della propria sessualità.
I ragazzi di oggi entrano nella fase puberale pieni di aspettative positive e a volte grandiose, con una rappresentazione più o meno nitida di quello che accadrà; ne ha parlato coi genitori, con gli insegnanti, ha ascoltato programmi in tv che esplicitamente parlano di una sfera che per anni è rimasta a gestione privata; in questo scenario nessuno si è spesso occupato realmente di sostenere l’esperienza emozionale relativa alla crescita. E così, quando al momento del debutto sociale le cose non vanno per come si era immaginato, gli adolescenti possono cadere nelle soluzioni chirurgiche o chimiche offerte dalla stessa società che ne origina la sofferenza (dipendenze, anoressia, ritiro sociale…).
Il ragazzo ritirato vuole sottrarsi allo sguardo reale dell’altro proprio come Thomas. Spesso sono convinti di non avere nulla da dare, soffrono per qualsiasi imperfezione possono rintracciare nell’immagine di sé e tale “bruttezza” viene isolata nel corpo facendo del corpo un vero e proprio persecutore. L’adolescente fa in effetti fatica a mentalizzare in questi casi le trasformazioni puberali che rendono il corpo goffo, impacciato e a volte anche un pò sgraziato.

Il corpo che con l’avvento della pubertà aveva promesso felicità, prestanza, potenza, forza, tradisce perché sede delle manifestazioni umorali che mettono a nudo la propria fragilità.
Il rapporto con l’altro è vissuto come doloroso, in quanto ci si espone al giudizio e alla paura di essere isolati e rifiutati. Il giovane che sperimenta il vissuto di inadeguatezza e di non essere all’altezza è spesso destinato ad essere preso in ostaggio della vergogna. Questa ha sicuramente un potenziale dirompente con conseguente sensazione di sfaldamento dei confini identitari. I ragazzi ritirati desiderano sottrarre il corpo, quel corpo che si vergogna e che tradisce alla vista dell’altro, non senza un vissuto di perdita. I ragazzi, infatti, desidererebbero avere relazioni di amicizia e sentimentali, ma ne rifuggono accuratamente in quanto l’altro potrebbe rifiutare e assumere la maschera di quel giudice dal quale tanto acrobaticamente rifugge.

In scacco vi è il compito evolutivo inerente la mentalizzazione del proprio corpo sessuato, complementare mortale, e virile (la maggior parte dei ragazzi ritirati sono di sesso maschile). Conseguentemente, nella scelta di isolarsi e di sottrarsi allo sguardo altrui si può rintracciare il tentativo di fermare il tempo e posticipare a data da destinarsi il proprio debutto sociale, nell’attesa di fare ordine e di imparare il “come si fa”.

Bibliografia
– Ammaniti M. (2015), La famiglia adolescente, La Terza, Bari.
– Lupi A.,Zavarise G. (2014), La rappresentazione del Sè, dell’oggetto genitoriale e d’amore, in Cooperativa Minotauro (2014). La bruttezza immaginaria – Intervento clinico con ragazzi ritirati. Attidell’evento culturale tenutosi a Milano il 9 e 10 maggio2014.
– Maggiolini A., Charmet G.P. (2004) (a cura di), Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano.
http://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/Generalistic-images/Documenti/ricerca.pdf
– Preciado P. B. (20015), Testo tossico, Fandango Libri, Roma.

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Crisi, paradossi e disagi della contemporaneità

Il testo l’inutile fatica,  frutto di un lavoro gruppale, e quindi, concepito in un terreno relazionale, è la testimonianza di una giornata di studio e approfondimento che ha visto coinvolti gli autori sui temi della crisi economica, della precarietà lavorativa e del malessere esistenziale che ne deriva. “Il pretesto”  è l’opera di Ehrenberg “La fatica di essere se stessi”, il cui punto nodale è la constatazione di come la depressione sia diventata una delle patologie più presenti del nostro tempo.
Il testo e il pretesto dai quali si parte ci costringono a fare i conti con le forme del malessere contemporaneo, ci portano a guardare al sintomo nella sua natura gruppale e a dare rilievo al disagio  come formazione sociale. 

Storicizzare la mente, come ci intima Ferrari, è quindi un dovere. Come lo è mettere in crisi i modelli precedenti e fare della clinica una scienza viva che non si esime dal conflitto. Evitare il  conflitto porta invece ad uno sguardo immobile sul malessere, come se la mente fosse una entità separata e impermeabile alle ruvidità delle varie epoche.

La depressione diventa la lente attraverso la quale, in modo sfaccettato, si guarda ai cambiamenti della nostra epoca. Come sottolinea Ferrari tutto ciò che riguarda la psiche non può essere significato nel luogo sterilizzato del laboratorio d’analisi, ma può essere compreso solo se colto nel suo terreno d’origine.

La complessità della questione è specularmente resa dalla complessità degli sguardi che si intrecciano nel testo. L’inutile fatica ci mostra questo tentativo di uscire dal rischio dell’autorefenenzialità, di non scadere in facili ideologismi, di leggere in modo complesso il dato storico e politico attraverso la clinica e il dato clinico attraverso la politica e il sociale.
In questo caso la depressione è sia un dato clinico che un dato politico e sociale. Lo si guarda sia attraverso i paradossi della nostra epoca che attraverso lezioni socratiche all’origine del pensiero occidentale fino ad arrivare alla crisi del materno.

All’inizio del testo ci si ritrova immediatamente immersi in una ricca riflessione sulla fatica dell’essere se stessi nella contemporaneità. La risposta a questa ingiunzione paradossale e a tale mandato sociale è un impoverimento del sé, una fragilità senza pari, che si innesca in un mondo sociale spogliato dalle comunità tradizionalmente aggreganti. Laddove il senso di comunità viene meno e l’ingiunzione predominante è quella della soggettivazione a tutti i costi si fonda l’humus della depressione, della fragilità del sè, del ritiro sociale.
A partire da queste riflessioni Lo piccolo mette in risalto il punto di cambiamento qualitativo nel vissuto depressivo del nostro tempo. Ci invita a guardare a come non sia più caratterizzato dalla colpa ma dal senso di inadeguatezza e dalla pervasiva sensazione di vergogna. Aspetti questi ultimi determinati in modo reattivo alle richieste sempre crescenti del mercato.
Il nucleo patogeno della depressione non è più caratterizzato dalla colpa ma dal deficit. Non ci si confronta più con strutture super egoiche rigide e sadiche ma con un ideale dell’io inarrivabile.
Non ci si volge più verso l’altro ma si rimane intrappolati in una dimensione narcisistica e spietatamente individualista.

In una coralità di voci vediamo consegnarci la grande solitudine relazionale del nostro tempo che appare ritmato da una competizione serrata e da una ricerca, perennemente frustrata, del successo a tutti i costi. E’ nella rifondazione del senso di comunità che si individua un elemento antagonista alla sofferenza del nostro tempo. Si coglie nel testo un invito a guardare alcuni movimenti di resistenza che hanno fatto da controaltare alla solitudine dell’uomo precario, alla gabbia interiore della depressione. In questo passaggio, come ci dice Lo Piccolo, si sottolinea il valore del processo più che dell’obiettivo.
Potremmo parallelamente dire che la comunità cura e, come in psicoterapia, il valore del processo di guarigione si ritrova nell’esperienza relazionale d’ascolto, sintonizzazione emotiva, valorizzazione del sè, rispecchiamento, confronto… Si ritrova già nel “viaggio”.

E’ ciò che ci trasmette Bifo, quando, prendendoci per mano lungo la lama che attraversa il disastro, alla morte del padre frappone la crisi del materno. Se guardiamo al materno in termini simbolici ci rendiamo conto che anche qui l’invito è alla riconnessione di trame, all’acquisizione di nuovi linguaggi, a concepimenti comunitari. E’ l’utero materno che ci consegna alla comunità. L’interiorizzazione del materno diventa allora nuovo terreno gruppale.

Inoltrandosi nella lettura ci si ritrova sospesi sulle macerie della politica. Si affonda lo sguardo in una delle trasformazioni più perverse del nostro tempo determinata dal venire meno della natura “collettiva” e “connettiva” della politica. Potremmo dire che a questo punto, con Cavaleri,  ci ritroviamo a sbattere contro un altro paradosso, quello della “Polis” che non assurge più ad essere luogo di ricerca di soluzioni collettive a drammi individuali ma luogo di competizione dove vige la legge della giungla. Anche la natura connettiva della politica sembra venire meno e in tale scenario frammentato si innesca il paradosso del terzo settore, del “sociale”, dell’essere “buoni”.

E’ nel terzo settore che si mette in rilievo le contraddizioni della contemporaneità. Esattamente in quella area di lavoro che dovrebbe occuparsi del disagio diffuso. Area di mezzo tra pubblico e privato. luogo di sperimentazione di strade alternative. via d’accesso al volontariato, ai tirocini, a forme di “lavoro non retribuito”, ai “Buoni per dirla con Luca Rastello” che perseguono obiettivi salvifici al di là della retribuzione. Proprio perché la mission è nobile e i soldi sono cosa vile, perchè il datore di lavoro è nostro alleato nella missione salvifica e non si può deludere.

E’ in questo scenario che vediamo in modo abbagliante l’azzeramento del conflitto, la fedeltà al capo, la competizione tra pari. Si potrebbe dire che nelle trame smagliate della politica, non più connettiva nè garante del bene comune, si innescano guerre fratricide alimentate dal mercato, non solo nei luoghi dell’impresa pura ma anche lì, nell’area dei buoni, dell’impresa sociale, delle missioni salvifiche.

La depressione allora diventa un dato politico che ci segnala la mancanza di tutele, l’assenza di garanzie, un nuovo paradigma del lavoro che non è più nobilitante ma è l’osso che si tende davanti a un cane affamato. Tra elementi clinici, politici e lavorativi, assurge nel testo la figura di un eroe classico, un eroe spietato e feroce, che nell’inutile fatica compare nel passaggio all’età adulta, quando ancora tutto sembra in divenire.
Compare il fantasma di Alcibiade nel periodo della sua adolescenza. Ruvolo ci porta nell’era classica ad ascoltare una delle più raffinate lezioni socratiche.

Socrate al giovane Alcibiade ammonisce di non frapporre le mete ambiziose della realizzazione del sè al discapito della comunità. Segnala come compito etico di chi governa occuparsi del bene comune non anteponendo il benessere meramente individuale a quello della comunità. Ruvolo trasponendo tale lezione ai nostri tempi rimarca la differenza tra un narcisismo maligno caratterizzato da un sè grandioso alla ricerca di continue conferme, mai nutrienti e mai bastanti…. a un narcisismo buono caratterizzato dalla cura del proprio sè.

Attraverso la possibilità di prendersi cura di se stessi, in modo nutriente e curando le proprie relazioni, diventa  possibile occuparsi/curarsi dell’altro. Solo attraverso questa strada si può restituire alla Polis il proprio spazio etico.

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TRA DESIDERIO E MATERNITÀ

SOSTEGNO PSICOLOGICO ALLA COPPIA CON DIAGNOSI DI INFERTILITÀ

scritto da Josie Bruno

Arriva un momento nella coppia durante il quale si sente il desiderio di concepire un figlio; tale desiderio è legato ad un processo di maturazione che riguarda il singolo e la coppia.

Vi sono alcuni casi in cui tale desiderio viene maturato da un processo disfunzionale, quale per esempio la necessità di portare un elemento di rinforzo ad una coppia fragile o tale scelta si manifesta come una reazione/riparazione a eventi negativi.

In altri casi, l’imperativo biologico e il tempo che passa, sono l’elemento che motiva la coppia alla ricerca dell’esperienza di generare un figlio. Le motivazioni, che fanno nascere nella coppia il desiderio di generare, sono molto importanti nella realizzazione del concepimento, nella gravidanza e nelle proiezioni future sul figlio e diventano maggiormente importanti quando il concepimento non avviene e la coppia riceve diagnosi di infertilità.

Quando il desiderio di concepimento viene disatteso, di solito nella coppia e nell’individuo avviene una frattura che richiede un tempo di elaborazione più o meno lungo. La diagnosi di infertilità diventa una ferita che colpisce l’identità individuale, l’identità di coppia, l’identità sociale.

Ognuno dei due partner si confronta con il fallimento del progetto generativo. All’interno della coppia dopo l’iniziale reazione di shock  ci si trova di fronte a un processo decisionale: proseguire o meno nella ricerca di un figlio, ricorrere alla riproduzione medicalmente assistita o attivare le procedure dell’adozione. Tutto ciò implica, anche in rapporto al confronto con il sociale, una profonda sofferenza emotiva che mette in crisi il sistema di valori, progetti e speranze della coppia e attiva un processo di riassestamento che può durare anche a lungo.

Tale elaborazione è il risultato di un processo molto intenso, caratterizzato da sofferenza, disperazione, rassegnazione, domande senza risposta, vuoti incolmabili.

Si parla di “lutto”, come nella esperienza di lutto, il processo di accettazione passa attraverso sentimenti di rifiuto, isolamento, collera, negazione e depressione.

La difficile elaborazione è conseguenza di una perdita non solo agganciata al reale presente, ma anche alla proiezione di sé nel futuro.

Spesso, infatti, entrano in gioco sentimenti di colpa, incapacità, inadeguatezza, con ripercussioni sulla propria autostima.

In una prima fase di questo percorso, un tema importante è quello dell’attesa, ovvero la capacità di dare a se stessi un tempo per decidere se e come proseguire nel percorso stesso, ma soprattutto la necessità di elaborare la propria sofferenza.

Il primo conflitto da elaborare è quello intrapsichico e riguarda soprattutto la consapevolezza di poter ristrutturare la propria identità oltre il concepimento di un figlio e il ruolo genitoriale.

Il concepimento dell’identità femminile si lega nell’immaginario collettivo alla maternità. La diagnosi di infertilità comporta una revisione dell’immagine di sé e il bisogno di rivalorizzare la propria immagine e la propria femminilità. L’idea di una sessualità fallita, di un corpo rotto, sterile, minaccia la percezione di sé; il corpo che non genera viene vissuto come avverso o minaccioso. Riattivare e rivitalizzare le risorse presenti e ristrutturare l’immagine di sé è un passaggio fondamentale che qualsiasi donna dovrà affrontare prima di decidere se proseguire nel processo di realizzazione del desiderio di diventare madre.

Anche per l’uomo ci sono conseguenze importanti sull’immagine di sé. Quando c’è un desiderio generativo, l’identità maschile viene focalizzata sulla capacità di fecondare; disattendere questa possibilità rappresenta la negazione del pilastro biologico dell’identità sessuale e carica il sé di un senso di inadeguatezza, colpa, vergogna per il mancato concepimento.

Un ulteriore fattore di stress implicato nella decisione di ricorrere alla PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) riguarda la sensazione di essere invasi nella propria sessualità. I vissuti più comuni sono di vergogna e senso di violazione , inoltre, le terapie sono intense e impegnative, a volte, fisicamente estenuanti.

Il lutto della perdita del figlio desiderato implica anche un’altra elaborazione, il fatto che la coppia non basti a se stessa per poter passare dalla diade alla famiglia.

Sotto questa luce il rapporto rischia di essere svilito. La rabbia e i sentimenti di aggressività per questa condizione possono essere proiettati verso il partner e l’inaccettabilità della diagnosi, se non elaborata adeguatamente porta ad allontanarsi.

Il rapporto sessuale viene svuotato della sua dimensione di piacere e desiderio e la dimensione fallimentare prevale dando luogo, spesso, a ulteriori difficoltà comunicative.

Per le coppie è importante riconoscere e accettare di avere un problema; maturare questa consapevolezza significa confrontarsi con il dolore, perché implica l’integrazione di quella parte di sè che non funziona come si vorrebbe senza percepirsi menomati o difettosi.

Spesso infatti sorgono rabbia e invidia nel vedere altre donne con la pancia (invidia del pancione) e la rabbia e la sofferenza spesso si fanno sentire anche quando amici, parenti, conoscenti fanno domande sul perché la coppia non ha ancora un figlio. La condizione di infertilità può dunque attivare comportamenti di fuga dalle relazioni e in alcuni casi l’isolamento familiare e sociale.

Il confronto con il fallimento, magari l’ennesimo, e il rischio di non realizzare il desiderio di genitorialità sono eventi che giustificano la sofferenza e a volte la comparsa di una depressione reattiva.

L’obiettivo di un percorso di psicoterapia e di sostegno psicologico è quindi aiutare la coppia a confrontarsi con questo dolore fornendo loro uno spazio di ascolto.

La terapia permette di creare un campo emotivo sul quale riconnettersi con l’altro rispetto al vissuto di perdita e dolore. A partire da questa nuova possibilità di confronto è possibile elaborare le emozioni dolorose e mobilitare all’interno della coppia risorse di sostegno reciproco. In tal modo diventa possibile nutrire una immagine di sè risanata sia a livello individuale che a livello di coppia. Da tutti questi fattori, in un campo emotivo tutelato dalla terapia, diventano pensabili nuove soluzioni, la terapia assurge a diventare per la coppia uno spazio creativo-rigenerativo.

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I cambiamenti nella mente dell’adolescente

di Cristina Pittari.

La confusione emotiva, l’imprevedibilità, la creatività, l’impulsività che caratterizzano l’adolescenza trovano una spiegazione negli studi neuroscientifici che attestano come nel cervello adolescente avvengano tanti cambiamenti in un arco di tempo breve e che le varie componenti cerebrali si sviluppino secondo velocità differenti.

Il cervello dell’adolescente è un cervello in via di sviluppo, quindi immaturo.
Le aree limbiche cioè quelle regioni del nostro cervello connesse all’impulsività e all’emotività si sviluppano prima di quelle corticali, delle quali la regione frontale è responsabile dell’autoconsapevolezza, dell’inibizione e dell’autoregolazione emotiva.
Studi dimostrano come nei giovani che arrivano alla pubertà la capacità di riconoscimento delle emozioni diminuisce fino al 20%,per poi essere recuperata ai 18 anni d’età.

L’adolescenza è quindi un periodo di trasformazioni e proprio per questo motivo di vulnerabilità.
Il rimodellamento cerebrale che caratterizza questo periodo della vita ne crea le condizioni. Si assiste alla riduzione del numero dei neuroni e delle loro connessioni, il cosidetto fenomeno della potatura, con conseguente eliminazione delle connessioni in eccesso (quelle cioè che non vengono utlizzate); aumentano le connessioni sinaptiche tra i neuroni rimanenti, conseguentemente ad un aumento della mielina, una guaina che ricopre il neurone e che ne permette la comunicazione. Questi cambiamenti sono responsabili del nuovo modo di essere, di pensare, agire dell’adolescente.
L’obiettivo finale di questi cambiamenti è favorire la nascita della capacità di integrazione, cioè di una maggiore specializzazione delle diverse aree cerebrali e di un migliore collegamente tra esse; una efficace connessione tra le aree corticali e sottocorticali cioè tra pensiero logico, razionale ed emotività.
L’ integrazione avviene dentro se e tra se e gli altri.
Proprio a causa di queste trasformazioni cerebrali, una vulnerabilità gia presente nell’infanzia, per cause genetiche o per esperienze vissute( trascuratezze, traumi, abusi), può emergere facilmente in adolescenza.

Negli anni della scuola superiore e dell’università, quindi, possono comparire importanti disturbi mentali come depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. Nei casi in cui l’umore o il pensiero diventino non funzionali per cui l’adolescente non riesce a stare bene con se stesso e con gli altri, bisogna comprendere se si tratta di una condizione temporanea e dovuta alla vivacità di questo periodo o se cela problemi più gravi che richiedono un intervento di tipo psicoterapeutico.
Il lavoro analitico con l’adolescente ha come condizione trasformativa i momenti d’incontro tra paziente e analista, momenti affettivi, in cui il paziente può interiorizzare una diversa qualità delle relazioni rispetto a quelle vissute. Momenti di sintonizzazione affettiva, di vicinanza,in cui sperimentare di “sentirsi sentito” dal proprio analista.

Il senso di appartenenza al gruppo,la possibilità di vivere attaccamenti multipli, la presenza di relazioni in grado di sostenere, la collaborazione tra generazioni, uno stile di attaccamento sicuro e quindi la possibilità di sentirsi amati, protetti, aiutati nei momenti di difficoltà sono ingredienti indispensabili affinchè gli adolescenti possano vivere al meglio questo periodo della loro vita
E’ importante essere consapevoli che alcuni aspetti dell’adolescenza come la ricerca di novità, di senso, la creatività, l’importanza degli altri, le emozioni intense siano da conservare e alimentare anche da adulti perchè senza la vita diventerebbe triste, noiosa, ripetitiva.
E’ proprio per questo che l’approccio agli adolescenti non potrà che valorizzare le componenti positive, la ricerca di nuove soluzioni ai problemi, l’effervescenza emotiva, la vitalità, il carmbiamento, la spinta rivoluzionaria.

 

Bibliografia
Funzione gamma rivista telermatica scienifica dell’Università La Sapienza di Roma

Siegel d.j., La mente adolescente 2013 Raffaello Cortina editore
Siegel D.J., La mente relazionale, 2012 Raffaello Cortina editore

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Laboratorio Gruppoanalisi Palermo

Centro clinico – Un progetto di psicoterapia democratica

Il progetto del centro clinico nasce dall’elaborazione del concetto di psicoterapia democratica come espressione di servizio accessibile a tutti.

La psicoterapia democratica ha come strumento di cura la psicoterapia ad orientamento psicodinamico e come statuto quello di creare delle condizioni di accessibilità ad ampio raggio. In termini concreti questo si traduce in un tariffario differenziato e conforme a diverse fasce di reddito. Con questa peculiarità si intende colmare una lacerazione creata dal corto circuito tra disagio e possibilità di cura.

In relazione ai tagli riguardanti la sanità pubblica il dipartimento di salute mentale ha ridotto notevolmente le risorse interne e, di conseguenza, la possibilità di cura. Allo stesso tempo la crisi ha reso impraticabile, per buona fetta della popolazione, rivolgersi al privato. L’aumento della crisi economica, la diminuzione delle risorse curanti coincidono inoltre con un aumento del malessere sociale.

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dipendenza_postmodernita

Sostanze di consumo e post-modernità

Gli imperativi sociali contemporanei tratteggiano una figura antropologica di uomo adattato e integrato nel mondo, una sorta di self-made-man che, se da un lato stimola gli individui a correre rischi a livello personale e professionale, dall’altro non fa altro che aumentare il senso dell’incertezza rispetto ai risultati delle proprie scelte.

Prendere delle scelte, quindi, significa essere esposti potenzialmente ad un rischio da esiti negativi e ad un sentimento di insicurezza derivante proprio dalla probabilità di fallimento. Ciò, di fatto, ha come conseguenza principale quella di rendere gli esseri umani più sensibili a rimedi chimici che permettano loro di far fronte a tutti questi sentimenti percepiti come poco funzionali all’adattamento sociale in un mondo il cui ideale è quello dell’uomo di successo.

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Rilettura teorico-clinica del modello transpersonale gruppoanalitico

In questo articolo si approfondirà il repertorio di conoscenze del modello gruppoanalitico in relazione delle acquisizioni clinico-scientifiche maturate negli ultimi anni in diverse aree.

A ben vedere il costrutto di transpersonale proposto Da Menarini e Pontalti, ed in particolar modo da Lo Verso, rappresenta un’ampia e articolata trama concettuale all’interno della quale possono essere collocate le direttrici teorico-metodologiche più utili per una clinica del/nel nostro tempo. Tutti i versanti del transpersonale risuonano in relazione alle trasformazioni sociali e culturali e alle acquisizioni scientifiche degli ultimi anni. In questa sede s’intende dare risalto alle specifiche implicazioni per ciascuno di essi.

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